Napoli è una città piena di colori, musica, canti, un luogo dove le ricorrenze, anzitutto quelle religiose, sono ancora molto sentite e vissute, soprattutto a tavola. Ogni festa ha il suo menù, sempre molto ricco, e il suo piatto speciale, quello che non deve mai mancare perché la festa sia con tutti i crismi. Siamo a Pasqua e i vicoli della città, soprattutto del centro storico, sono inondati di profumi di ogni genere. Ma uno su tutti si distingue ed è l’odore dei fiori d’arancio, l’aroma che dà il tipico profumo alla regina incontrastata della tavola pasquale partenopea: la pastiera.
Le origini del dolce: dal mito alla storia
I più fantasiosi legano l’origine della pastiera al culto della sirena Partenope, il cui corpo esanime sarebbe giunto sul lungomare di Napoli. Venerata come una dea, gli abitanti di Napoli ne avrebbero onorato la memoria con un dolce: la pastiera, appunto.
I devoti portavano alla sirena sette doni: la farina, simbolo di ricchezza, la ricotta, simbolo di abbondanza, le uova, che richiamano la fertilità, il grano cotto nel latte, a simboleggiare la fusione di regno animale e vegetale, i fiori d’arancio o di altri agrumi, visto che la diffusione delle arance in quell’epoca era molto limitato in Europa, profumo della terra campana, le spezie, omaggio di tutti i popoli e lo zucchero, per celebrare la dolcezza del canto della sirena. Partenope gradì i doni, ma li mescolò creando questo dolce unico.
Una ipotesi meno fantasiosa: il culto dei romani
Gli antichi Romani avevano una cucina molto ricca e tra le pietanze più diffuse c’era una torta preparata con farro al quale venivano aggiunti latte, miele e formaggio: il libum. E la preparavano abitualmente per festeggiare anche il matrimonio, che dal dolce prese il nome: confarreatio. Una delle feste più sentite nell’impero erano i Ludi Florales o Floralia che segnavano la fine dell’inverno e l’ingresso nella stagione primaverile (la Pasqua cristiana è una festa tipicamente primaverile).
A tavola c’era la torta di farro e nell’occasione le sacerdotesse di Cerere (chiamata anche Demetra) portavano in processione delle fiaccole e l’uovo, segno della vita nascente che simboleggiava la rinascita della natura dopo il freddo inverno. A Napoli il culto di Cerere era molto diffuso ed è testimoniato da un bassorilievo raffigurante la dea nella zona di San Gregorio Armeno.
L’uovo, ancora oggi, da quelle utilizzate per la pastiera a quelle posate sul castello a quelle di cioccolato regalate, rimane ancora il simbolo della Pasqua cristiana.
Il Monastero di San Gregorio Armeno
La tradizione più accreditata attribuisce la pastiera alla monache di San Gregorio Armeno, nel XVI secolo. Tutti i dolci della tradizione napoletana, anche quelli ormai scomparsi, sono stati messi a punto in un convento e da essi ne hanno preso spesso il nome. L’intento delle suore era, secondo alcuni, la catechesi attraverso la tavola, ma la pastiera, lungi dall’essere un dolce povero, destinato a tutti, era l’omaggio che le religiose facevano all’aristocrazia della città: San Gregorio Armeno, infatti, era il monastero dove si ritiravano le fanciulle della Napoli bene che intraprendevano la vita religiosa.
Gli ingredienti della pastiera, le uova, il grano, il latte, gli aromi, la ricotta, rimandano a significati religiosi connessi al Cristianesimo, di cui la Pasqua è la festa principale. Ma l’unica cosa certa è che le suore del convento di San Gregorio Armeno erano delle vere maestre nella preparazione delle pastiere, che poi regalavano alle famiglie aristocratiche della città. “Quando i servitori andavano a ritirarle per conto dei loro padroni – racconta la scrittrice e gastronoma Loredana Limone – dalla porta del convento che una monaca odorosa di millefiori apriva con circospezione, fuoriusciva una scia di profumo che s’insinuava nei vicoli intorno e, spandendosi nei bassi, dava consolazione alla povera gente per la quale quell’aroma paradisiaco era la testimonianza della presenza del Signore”.
Si racconta che perfino l’ombrosa regina Maria Teresa D’Austria, “la Regina che non ride mai”, consorte del goloso “re bomba” Ferdinando II di Borbone, si fosse lasciata sfuggire un sorriso dopo un morso alla beneamata pastiera. “Per far sorridere mia moglie ci voleva la pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo”, commentò Ferdinando.
La ricetta della pastiera
Sulla vera ricetta della pastiera napoletana, però, ognuno dice la sua e il dibattito ferve anche in terra partenopea. La ricetta classica prevede la preparazione di una frolla a base di farina, uova, strutto e zucchero semolato da sistemare sul “ruoto”, la tipica tortiera in alluminio dai bordi lisci e leggermente svasati, alta 3-5 cm. Il “ruoto” più antico, però, consentiva di preparare pastiere più grandi visto che era alto addirittura 10 cm!
Per il ripieno occorrono invece latte, zucchero, ricotta di pecora, chicchi di grano, strutto, frutta candita, uova, vaniglia, vanillina, scorza d’arancia e di limone, acqua di fiori d’arancio e cannella in polvere. Il tutto da sormontare con le striscioline di frolla e poi da cuocere in forno, con spolverata di zucchero a velo finale. Una delizia della tradizione partenopea!