Si è tenuto in data 23 novembre l’incontro “La forza delle parole: sessismo linguistico e violenza di genere” incontro di inaugurazione del ciclo di Seminari “Per il diritto”, presso il Palazzo San Carlo (Sala Convegni) a Santa Maria Capua Vetere. L’articolo ripercorre gli spunti di riflessione succedutisi.
Il convegno
Una data da ricordare, quella del 25 novembre: la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne segna un momento riflessione essenziale nella direzione di un mutamento culturale. Questa svolta di coscienza si impone come risposta ad un fenomeno endemico e, in quanto tale, allarmante. Il Tribunale di Santa Maria, anticipando la ricorrenza istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha promosso un’analisi multidisciplinare sul tema. Palazzo San Carlo si è, dunque, prestato a suggestivo sfondo di interventi puntuali sulla violenza di genere. A fare da fil rouge, il sessismo linguistico. L’incontro prende, infatti, le mosse dall’amara constatazione del palesarsi della violenza di genere per le sottili quanto pungenti vie delle parole. Concetto rievocato dall’immagine della locandina, fotografia scattata dalla magistrata Valeria Maisto: gocce di rugiada che si posano su una ragnatela, senza spezzarla. In equilibrio, come le parole che, se corrette, non recidono la vita.
L’aumento dei casi di violenza di genere
I protagonisti dell’incontro hanno declinato la tematica della violenza di genere sotto il profilo psicologico, sociologico nonché giuridico. L’obiettivo del Tribunale, come evidenziato dalla magistrata Gabriella Maria Casella, è instaurare un’intensa cooperazione finalizzata allo scambio di conoscenze: un incontro tra saperi nella direzione del buon esito della pratica giudiziaria. Il fine è, più precisamente, un sistema giudiziario che si dimostri coerente, sul versante penalistico e civilistico, e che assicuri la tutela delle vittime. Ciò per far fronte ad un numero crescente di femminicidi. Come sottolinea il Procuratore Carmine Renzulli, i procedimenti penali in materia di violenza di genere non cessano di aumentare. I dati della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza alle donne fanno emergere un ulteriore elemento di criticità: dei 273 omicidi di donne avvenuti tra il 2017 e il 2018 solo il 15% delle vittime aveva denunciato il carnefice.
Gli stereotipi e la violenza di genere
Denunciare è fondamentale: lo ha ribadito il Sindaco del Comune di Santa Maria Capua Vetere, Antonio Mirra. Ma è, altresì, importante prevenire. Ancora più urgente è bandire un’educazione improntata alla disparità e che traduce in linguaggio precise stereotipie. Lo ha evidenziato la magistrata Valentina Ricchezza. Come ha ben spiegato la Dott.ssa Ricchezza, gli stereotipi di genere specificano come donne e uomini agiscono e dovrebbero agire. Sono appresi nei primi anni di vita; si trasformano, poi, in associazioni mentali implicite e influenzano, in maniera del tutto inconsapevole, i comportamenti.
Il sessismo linguistico negli atti del giudizio
Il rischio tangibile è che gli stereotipi di genere si risolvano nella violenza di genere. A testimonianza, si pensi alla sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nel caso J.L. c. Italia. La CEDU ha accertato la violazione dell’art. 8 CEDU (che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare), censurando la sentenza della Corte di Appello di Firenze. La pronuncia, resa in esito ad un processo per stupro, aveva stigmatizzato la vittima, riferendosi alla situazione personale della ricorrente, alle sue relazioni sentimentali, al suo orientamento sessuale e ad altri elementi del tutto irrilevanti ai fini della valutazione di responsabilità penale degli imputati. Non avrebbe, dunque, protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria.
Il potere di nominazione e di interpretazione
Se ciò è sintomatico della potenzialità lesiva delle parole, è altrettanto evidente che attraverso il linguaggio esercitiamo un’altra forma di potere: il potere di nominazione, di dar nome alle cose, sottratto alla sfera d’azione delle donne fin dalla Genesi. Così come il potere di interpretazione del linguaggio giuridico, almeno fino al 1963, come ricorda la magistrata Paola Di Nicola: l’Assemblea costituente riservò, infatti, agli uomini la magistratura, giudicando le donne troppo passionali, incapaci di logica.
La discriminazione di genere nella ricostruzione del fatto
Ad oggi la giustizia, sebbene priva discriminazioni di genere nell’accesso, non è scevra da stereotipi che si manifestano, in primis, sul piano del linguaggio degli atti giudiziari. Soprattutto delle sentenze in materia di femminicidi. Le violenze e le umiliazioni si ridimensionano a lite familiare. L’uomo che maltratta è mosso dalla gelosia o, ancora, dall’impulso sessuale. Ciò avvalora l’idea che una relazione gerarchica tra uomo e donnapossa elevarsi a normalità. Da qui l’emergenza di destrutturare i pregiudizi culturali. Un punto di avvio in tal senso è concepire la donna nella sua individualità, non in virtù di un ruolo rivestito in ambito familiare. Come moglie, madre, figlia.
Il contrasto alla cultura della violenza: dal linguaggio all’occupazione
Ci si muoverebbe in direzione opposta alla tendenza ad inglobare il femminile nel maschile. Proclività che emerge già semplicemente dall’uso del maschile plurale per denominare la totalità delle persone. L’assenza del genere neutro, ha sottolineato la Dott.ssa Raffaella Palladino, responsabile della cooperativa E.V.A., è sintomatico della persistenza della subordinazione delle donne al genere maschile. Il superamento di tale stato di soggezione parte da una revisione del linguaggio, nonché del sistema di formazione sin dalle primarie.
Decisivo l’operato dei centri antiviolenza, sul duplice versante dello sradicamento della cultura della violenza e dell’inserimento occupazionale delle donne vittime di maltrattamenti. È un lavoro complesso, come testimonia la psicologa Benedetta Rizzi. L’autostima delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza è minata dalle offese ricevute negli anni.
In bilico tra denunciare ed essere giudicate
Ancora una volta le parole: arme nelle mani della prepotenza maschile, veicolo di stereotipi radicati nel contesto familiare e difficili da estirpare. Tale stereotipo diviene modello e paradigma cui conformarsi: discostarsene espone al giudizio insindacabile del “paese”. Il verdetto delle persone vicine, anch’esse parte di una cultura che vede la donna in posizione subordinata, fa più paura della violenza fisica. Frena il desiderio di denunciare e di compiere un atto percepito come tradimento del proprio compagno e carceriere.
Una distorsione narrativa
La Dott.ssa Alba Bianconi, fondatrice insieme alla dott.ssa Palladino della prima casa rifugio nell’Italia meridionale, ci racconta un episodio cui ha assistito. Una donna, mentre i carabinieri formalizzavano l’arresto del suo compagno, piangeva. Con il volto rigato dalle lacrime, le labbra della donna scandivano poche parole: “Io non sono cattiva. Perché lo arrestano? Mica mi ha ammazzato.” L’interrogativo lascia impietriti dinanzi all’evidenza: i carabinieri avevano chiamato il 118 perché la donna era stata massacrata di botte. Si assiste, ha osservato la Dott.ssa Bianconi, ad una distorsione narrativa. Ciò accade in ambito giornalistico. Basti pensare agli articoli in tema di infanticidio che si accompagnano ad un’immagine del padre che bacia il figlio, sua vittima. Lo stesso si verifica sul piano processuale: negli scritti difensivi, in cui gli avvocati, spesso, ascrivono la violenza ad uno stato patologico che sfocia in un raptus improvviso.
I pregiudizi della giustizia
Lo stesso organo giudicante è, talvolta, affetto dal pregiudizio. Ragion per cui, come evidenziato dal magistrato Raffale Sdino, la giurisprudenza di legittimità, da ultimo nel 2021, ha ribadito il dovere di giudicare secondo gli ordinari mezzi di valutazione delle prove. Più nel dettaglio, la Suprema Corte ha respinto un’adesione acritica ad una diagnosi di sindrome di alienazione parentale (PAS). Il concetto di PAS (Parental Alienation Syndrome) sta a descrivere la situazione in cui uno dei genitori (cd. “alienante”) mette in atto una dinamica denigratoria nei confronti dell’altro genitore (cd. “alienato”) innescando un processo di rifiuto psicologico da parte dei figli. Dinanzi a tali dinamiche, ha ribadito il Dott. Sdino, il giudice ha il dovere di reagire tempestivamente, nell’umile consapevolezza della necessità di modificare, eventualmente, i propri provvedimenti in futuro. Una giustizia tardiva è, infatti, una forma di vittimizzazione secondaria.
Le azioni positive
Si fa pressante la necessità di intervenire, soprattutto a seguito della pandemia. Quest’ultima ha moltiplicato i fenomeni di violenza e costretto molte donne a rinunciare alla propria occupazione per dedicarsi alla cura di figli o familiari non autosufficienti. Tra gli strumenti a disposizione, come precisato dalla Dott.ssa Francesca Palma, direttore Consorzio servizi sociali, figura il piano triennale delle azioni positive. Introdotto dal Codice delle pari opportunità, il piano deve presentare due sezioni: una, di analisi della situazione di fatto; un’altra, di proposte a promozione delle pari opportunità. Ancora, il reddito di libertà: un fondo istituito dal governo per favorire l’emancipazione delle donne vittime di violenza attraverso l’indipendenza economica. Sarebbe auspicabile, come evidenziato dalla Dott.ssa Palma, introdurre linee guida sul linguaggio che racchiudano un protocollo attento alle differenze di genere.
Un fronte comune contro la violenza di genere
Appare chiaro, in conclusione, che la violenza di genere è un male da combattere su più fronti. Il profilo linguistico è uno dei tanti in cui si palesa una subordinazione del genere femminile. La sinergia tra gli ambiti disciplinari può contribuire a comprendere il pregiudizio di genere e, conseguentemente, a circoscriverlo ed eliminarlo. Di certo favorevole la circostanza che le donne stiano conquistando posizioni di potere, prima del tutto precluse. Basti pensare che al 29 febbraio 2020 le toghe donne erano in netta prevalenza: 5.308 magistrati di sesso femminile (pari al 54% circa) a fronte di 4.479 magistrati di sesso maschile. L’auspicio è, dunque, che il contesto familiare conosca un’evoluzione al pari del versante occupazione: nella direzione di un’eguaglianza che sia scolpita non soltanto nell’indiscusso dettato costituzionale ma anche e soprattutto nella coscienza collettiva e nel suo palesarsi nelle azioni quotidiane.
di Ilaria Ainora