Mario Laporta, una vita da fotoreporter

Redazione Informare 11/01/2017
Updated 2017/10/14 at 12:50 PM
6 Minuti per la lettura

Mario Laporta è fotoreporter da circa 32 anni e collabora con i maggiori quotidiani e periodici italiani. Ha raccontato con le fotografie paesi di frontiera e storie di guerra, lavorando per agenzie prestigiose come la Reuters. Attualmente è fotografo e coordinatore per il sud Italia per Agence France Presse, Senior Photographer della Agenzia Controluce e dal 2007 docente di Fotogiornalismo presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Lo abbiamo incontrato per sapere di più sulla sua carriera e sul mondo del fotogiornalismo.

Carabiniere spaghetti, Mario Laporta 2016
Foto di Mario Laporta “Carabiniere spaghetti”, 2016 presso al CAM di Casoria

Parlaci di come nasce la tua passione e come ti sei avvicinato al fotogiornalismo.

«Ho cominciato circa 43 anni fa, perché mio zio che si occupava di fotografia cerimonialista e iniziai a lavorare con lui. Sentivo che la passione per la fotografia cresceva sempre più, fino a decidere di lasciare gli studi intrapresi a giurisprudenza per dedicarmi totalmente ad una professione che amavo. Essendo cresciuto durante gli anni della guerra del Vietnam e restando affascinato dai grandi fotoreporter di quel periodo, come Don McCullin, ai quali mi sono sempre ispirato, decisi di intraprendere la carriera, non facile, di fotogiornalista. Nel lontano ’84 notai che su “Il Mattino” di Napoli uscivano sempre le stesse foto della Formula 1, così proposi all’allora caporedattore dell’inserto “Sport Sud” Domenico Ferrara di farmi accreditare per le prove che si tenevano ad Imola pagandomi da solo tutte le spese. Arrivato lì iniziai a “rubarmi” le pose degli altri fotogiornalisti. Le mie foto piacquero molto e così iniziai a fare il fotoreporter della Formula 1 per vari anni».

Raccontaci di momenti emozionanti e tappe fondamentali della tua carriera.

«Tra le esperienze più importanti ricordo il periodo di ricerca personale in Nicaragua e quello in cui ho lavorato per “Il Mattino” in Medio Oriente come fotografo freelance dal 90 al 93. In seguito ho collaborato con l’agenzia Reuters, dal 1993 al 2003, per la quale ho fotografato la guerra servo-bosniaca e successivamente le crisi albanesi. Nel febbraio 2002 sono stato mandato in Afghanistan e l’anno successivo in Iraq.Sicuramente l’esperienza più emozionante avvenne quando andai a Berlino nel 1989. Mi feci ospitare da una mia amica che abitava lì per fare un reportage riguardante Berlino Est e Ovest. Così mi trovai lì quel famoso 9 Novembre 1989 e fui il primo fotogiornalista italiano a scattare la caduta del muro. Purtroppo l’agenzia, per la quale all’epoca lavoravo, non capì l’importanza della notizia tanto che non vollero ricevere le mie foto via aereo, ma aspettare che tornassi dalla Germania. Deluso e furioso al mio ritorno non riuscii a vendere nessuna foto. Tuttavia  fu un’esperienza che mi formò professionalmente e oggi espongo con orgoglio quelle foto in mostre o in gallerie private».

Come funziona un’agenzia fotogiornalistica?

«Un’agenzia è una multinazionale dell’informazione e le quattro più importanti al mondo sono Reuters, Agence France Press, Associated Press e Gatty Image. Ognuna contano circa 350 fotografi staff, ossia stipendiati, stringer con garanzia, coloro che lavorano per dei determinati giorni, e stringer senza garanzia, cioè i referenti territoriali. Quando succede un avvenimento si stila una lista di fotografi che devono intervenire in base all’esperienza e all’addestramento effettuati da quest’ultimi. All’interno dell’agenzia tutti quanti devo saper fare tutto dalla fotografia di reportage di guerra a fotografare una partita di calcio, bisogna essere molto mobili. Una volta entrato in un’agenzia lavori a squadra e ognuno deve ricoprire una certa zona di intervento».

Reputi che il fotogiornalismo sia morto?

«A differenza di quello che dicono in molti il fotogiornalismo non è morto. Ripeto una frase di un caro collega, “non è morto il fotogiornalismo è morta l’editoria fotogiornalistica” almeno in Italia. All’estero il fotogiornalismo è la prima fonte di fotografia, quando il “Time” prova a fare la copertina con l’Iphone dei lettori riceve una valanga di lettere di protesta da parte degli stessi lettori, dicendogli che loro compravano il giornale perché all’interno c’erano fotografie stupende. Ad esempio in Italia non abbiamo questa cultura di scrivere ai giornali per fare critiche costruttive. Questo perché la nostra editoria non ha abituato il lettore ad essere parte del giornale, ma solo a subirlo».

Come definisci un bravo fotogiornalista?

«Innanzitutto è un curioso e un testimone. Oggi definirei molti fotogiornalisti come “artisti”, perché quando in una fotografia si effettuano operazioni di modifiche aggiungendo o togliendo dei particolari si sfora nel campo della fotografia artistica. Credo che la fotografia è tale perché racconta la realtà che si sta osservando. Bisogna distinguere tra i fotografi che fanno fotografie e quelli che producono semplicemente immagini. Oggi con il web siamo bombardati da centinaia di immagini al giorno, ma tendiamo a soffermarci, come per magia, solo su quelle foto particolari, che possiedono contenuti e messaggi veri. Questo è ciò che riesce a fare un bravo fotogiornalista: comunicare attraverso le proprie foto».

di Gabriele Arenare e Carmine Colurcio

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