Il Capitano Simone Vecchi da tre anni è Comandante di Reparto presso la Guardia di Finanza di Mondragone, una compagnia alle prese con le illegalità estese sul litorale domitio. Nato a Foligno nel 1992, il Capitano Vecchi è alla prima esperienza nel Comando di un Reparto, un onere reso ancora più complesso dei fenomeni insistenti sui territori di Mondragone e Castel Volturno. La preparazione giuridica e l’intraprendenza professionale, però, sono quelle giuste per affrontare le violenze di cui sono vittime coloro che sono costretti nelle fasce più deboli della società.
In questi anni il Capitano Vecchi ha potuto interfacciarsi con il fenomeno del caporalato, venendo a conoscenza dell’inaudita violenza riservata alle vittime nelle campagne mondragonesi, liternesi, castellane e non solo.
Quale ricordo avrà degli anni di servizio spesi nel territorio casertano, particolarmente quello costiero?
«È stato il primo Comando di un reparto, quindi si tratta di un’esperienza molto importante per me. Avrò per sempre un ricordo intenso, ho avuto la possibilità di interfacciarmi con una realtà che mi ha fatto crescere tanto professionalmente».
Quali sono state le operazioni più sentite?
«Quelle sul caporalato mi hanno particolarmente colpito. Purtroppo parliamo di un fenomeno criminale che abbraccia tutta l’Italia e che consente di ottimizzare il costo del lavoro senza delocalizzare. Ad alcune aziende non conviene più delocalizzare a causa di rischi di instabilità politica ed economica dei paesi esteri, quindi sta prendendo piede un fenomeno (il caporalato .ndr) che ormai non è più solo rilegato al settore agricolo. Il caporalato si fonda sullo sfruttamento della persona, di conseguenza le vittime più facili sono coloro che vivono un disagio sociale ed economico, primi tra tutti gli immigrati, soprattutto gli irregolari».
Non si aspettava un fenomeno così esteso…
«Avevo già visto forme di caporalato in Emilia Romagna, ma il caporale non ha un ruolo così evidente come su questi territori. In genere il caporale è un manager mentre il lavoratore sfruttato è un soggetto che, avendo anche un contratto a tempo indeterminato, viene spinto a lavorare più ore in difformità del contratto. Ci sono varie forme di caporalato, sul litorale domitio parliamo di un fenomeno molto più semplice ma anche più brutale. La violenza con la quale viene realizzato è proprio l’arma che ne consente una tale diffusione. A Castel Volturno e Mondragone la massiccia presenza di extracomunitari entrati illegalmente nei territori dello stato, fa sì che questi non abbiano altra forma di sostentamento se non l’illegalità, spesso l’esigenza di commettere illeciti coincide con lo sfruttamento lavorativo».
Qual è il limite nella comprensione sociale di questo fenomeno?
«Il caporalato è principalmente un reato contro la persona, ma in realtà produce effetti collaterali economici molto significativi. È un reato capace di inquinare il mercato. Gli imprenditori che lo commettono riescono ad avere risparmi straordinari rispetto alle imprese che lavorano nella legalità; parliamo di risparmi sul costo del lavoro e sulle imposte che possono arrivare al 100% – 200%. Si tratta di una ricchezza occulta che se reinvestita nell’impresa (nell’acquisto di nuovi mezzi o terreni) rende l’imprenditore molto più forte sul mercato. In un settore come quello ortofrutticolo riuscire ad abbassare il prezzo su frutta e verdura significa accaparrarsi grandi fette di mercato. Da qui si evince che il caporalato non è solo violenza individuale, ma rappresenta una forma criminale altamente lesiva dell’economia».
Quale misure avete adottato per contrastarlo e quali risultati hanno prodotto?
«La misura più efficace è la presenza costante e quotidiana sul territorio. Ciò consente di cogliere, anche in una fase preliminare, forme di sfruttamento. Lo scambio di informazioni con le Istituzioni e le associazioni territoriali è molto importante per aiutarci ad avere un quadro. Le testimonianze dirette sono poche a causa dello stato di bisogno in cui versano le vittime, le quali spesso non confessano alle forze di polizia perché hanno paura di perdere il posto di lavoro».