Informareonline-barabba

Volontariato in carcere: Chiara Parisi e l’associazione “Figli di Barabba”

Grazia Sposito 02/07/2021
Updated 2021/07/02 at 2:19 AM
11 Minuti per la lettura

Chiara Parisi è la presidente dell’associazione “Figli di Barabba”. Essa difende i diritti umani dei ristretti, degli immigrati, un’associazione di volontari che operano all’interno delle carceri sul territorio campano. Al fianco di Chiara c’è papà Antonio, la sorella Francesca e un gruppo affiatato di volontari. Giovani, adulti e persino un padre spirituale.

Indice
Ciao Chiara, sei presidente dell’associazione “Figli di Barabba”, una realtà impegnata nel volontariato carcerario sul territorio campano. Com’è nata la volontà di operare in carcere? Quando ha iniziato questo cammino di educazione ai detenuti?Hai trovato delle difficoltà ad inserirti in un contesto simile?Chi come te si rapporta settimanalmente con i detenuti, deve avere una cultura diversa da quella del pregiudizio. Ma il luogo comune è l’esatto opposto. “Chi sbaglia paga”. Come affronti nella società un tema difficile come la rieducazione in carcere?«Grazie per questa domanda, mi piace un sacco. Mi trovo a parlare con tantissime persone che dicono in tutto il loro napoletano: “Guaglion amma squaglià a chjàvi”. Io dico sempre che il carcere non è eterno, soprattutto per quei omicidi di furto, rapina o d’associazione. Nel momento in cui quella persona ha scontato la sua pena, automaticamente è fuori dal carcere; ma se quella persona non è cambiata rifà il suo stesso errore: anzi non fa le stesse cose ma le raddoppia. Il carcere a volte incattivisce, infatti i ragazzini più piccoli lo chiamano “l’università del male”, perché chi come loro deve scontare solo pochi anni di carcere, in quell’arco di tempo si trova soprattutto a confrontarsi anche con i delinquenti. Persone più grandi di loro, che li proiettano nel giro della malavita. Per questo, io dico sempre alle persone che mi conoscono, e sanno il mio cammino da volontario, che un detenuto che esce e viene rieducato è un problema in meno per noi, per la nostra società. Ciò che è importante secondo il mio punto di vista, è cercare di rieducare queste persone affinché quando escono, quando vengono riconsegnati alla società, siano persone migliori e che magari possono cambiare strada e possono diventare delle risorse per noi».

Dopo più di un anno l’associazione “Figli di Barabba” qualche settimana fa ha ripreso le attività in carcere, un anno di restrizioni che ha messo in ginocchio ahimè, anche il mondo del volontariato. Qual è stata la tua prima emozione?

Il carcere, come ci spiega Chiara è una realtà abbastanza impegnativa. Dopo un lungo anno di stop, per via delle restrizioni dovute alla pandemia, qualche settimana fa i volontari dell’associazione “Figli di Barabba”, hanno ripreso i loro corsi di rieducazione ai detenuti del carcere di Secondigliano. Allora, ho deciso d’incontrare Chiara, per farle qualche domanda e farmi raccontare le sue emozioni ogni volta che mette piede oltre quelle sbarre. E di come riesce ad andare oltre ogni reato di un detenuto.

Ciao Chiara, sei presidente dell’associazione “Figli di Barabba”, una realtà impegnata nel volontariato carcerario sul territorio campano. Com’è nata la volontà di operare in carcere? Quando ha iniziato questo cammino di educazione ai detenuti?

«Come hai detto tu, sono la presidente dell’associazione “Figli di Barabba” ma non penso al mio ruolo da presidente perché comunque il gruppo che ormai si è creato, è un gruppo talmente unito, affiatato, che alla fine non ci interessano i ruoli formali. Quindi non mi ritengo presidente dei “Figli di Barabba”, ma mi ritengo una figlia di Barabba. Il carcere è una realtà molto, molto impegnativa. Io sono entrata per la prima volta per fare volontariato in carcere, all’età di diciott’anni e mezzo, una “passione” che mi è stata tramandata da mio padre. Nel senso che mio padre già era assistente volontario nel carcere di Secondigliano, io sono stata la più giovane assistente volontaria ad entrare in carcere con l’articolo 78, che praticamente è proprio un tesserino, i cosiddetti “volontari strutturati”.

Con questo tesserino, posso accedere ai reparti assegnati non solo per fare progetti, ma anche per assistere le singole persone nei vari problemi. Ossia, oltre all’ascolto del recluso, tante volte ci capita che hanno problemi anche con un paio d’occhiali da vista, o problemi che non riescono a rintracciare gli avvocati all’esterno. Quindi noi cerchiamo, ovviamente concordando sempre tutto con la rieducativa, la segreteria ecc.. di poter assistere questi ragazzi, e di poter velocizzare un po’ tutta la procedura. Perché purtroppo ci sono troppi ragazzi e troppi pochi operatori.

La prima volta che sono entrata nel carcere di Secondigliano, mi sono sentita mancare l’aria, nel senso che quando uno intraprende una cosa nuova è preso dall’emozione, dall’adrenalina. Quando ho messo piede per la prima volta nel carcere, l’emozione è stata talmente forte che sono stata dentro veramente molto poco. Penso d’essere rimasta una decina di minuti nel reparto, poi subito sono dovuta uscire. Sembra strano, ma fu proprio così. Successivamente ho iniziato un progetto con un’altra associazione del cappellano di Poggioreale, proprio al carcere di Poggioreale di scrittura creativa. Lì ho fatto volontariato quattro anni, ed ero presente nel padiglione Napoli. In quel padiglione erano detenuti tutti napoletani, tutte quelle persone che hanno commesso quei reati futili, nessun reato è futile, però vi erano tutti quei ragazzini che avevano rubato il motorino, o qualche rapina di poco spessore.

C’erano parecchi giovani, infatti ogni volta che andavo da loro mi dicevo: “quanto sono fortunata”, ed ora ti spiego anche il perché. Io sono nativa di Napoli, in un quartiere abbastanza degradato, Ponticelli, dove continuamente ci sono continue guerre tra gang, clan, e quant’altro. Io da piccola tra virgolette ero un po’ una teppista, mi piaceva litigare per strada con i ragazzini più grandi di me, e proprio quando sono entrata nel carcere da volontaria, mi sono resa conto di quanto sono stata fortunata ad avere una famiglia alle spalle che ha cercato in tutti i modi di indirizzarmi sulla strada giusta».

Hai trovato delle difficoltà ad inserirti in un contesto simile?

«Non ho trovato difficoltà ad inserirmi in un contesto simile, perché ho avuto la fortuna grazie soprattutto ai miei genitori d’essere cresciuta in tanti mondi, anche con il mondo della disabilità. Ricordo che da piccola mio padre mi portava sempre con lui in un’associazione dove erano presenti bambini e adolescenti affetti da diverse disabilità insieme alle loro famiglie. Ho avuto la fortuna negli anni di riuscire ad approcciarmi a qualsiasi individuo ma soprattutto ho imparato e ho avuto quella capacità di andare, di guardare oltre. Nel caso della disabilità, di guardare aldilà di quello che vedevano i miei occhi; oltre il corpo, l’aspetto fisico; nel caso dei detenuti di andare oltre a quello che era il loro reato. Perché se pensi al motivo per cui quella persona è lì, (clan camorristici, persone che hanno ucciso, persone che hanno violentato), tu non riesci più a fare volontariato.

Io ho sempre pensato che il mondo è fatto di bene, è fatto di male e credo che tutti debbano avere una seconda possibilità. O meglio, che tutti devono avere qualcuno che possa stare vicino a queste persone senza giudicare. Ogni venerdì che entro in carcere, dico ai ragazzi che a me non interessa la loro storia, la loro condizione di pena ma il motivo per cui sono lì, perché voglio salvare una persona. Se riesco a salvare una persona su un gruppo di trenta ragazzi, ho vinto. Infatti, la più grande soddisfazione c’è stata data da molti ragazzi, che ora sono fuori ed hanno una vita veramente diversa; per me queste sono emozioni vere, indissolubili. Quando arriva il giorno della settimana in cui dobbiamo recarci al carcere di Secondigliano, mi sento felice solo al pensiero che forse riesco a salvare un altro ragazzo. Regatandogli una nuova vita, un nuovo futuro lontano dalla malavita, per chi è pronto a cambiare».

Chi come te si rapporta settimanalmente con i detenuti, deve avere una cultura diversa da quella del pregiudizio. Ma il luogo comune è l’esatto opposto. “Chi sbaglia paga”. Come affronti nella società un tema difficile come la rieducazione in carcere?
«Grazie per questa domanda, mi piace un sacco. Mi trovo a parlare con tantissime persone che dicono in tutto il loro napoletano: “Guaglion amma squaglià a chjàvi”. Io dico sempre che il carcere non è eterno, soprattutto per quei omicidi di furto, rapina o d’associazione. Nel momento in cui quella persona ha scontato la sua pena, automaticamente è fuori dal carcere; ma se quella persona non è cambiata rifà il suo stesso errore: anzi non fa le stesse cose ma le raddoppia. Il carcere a volte incattivisce, infatti i ragazzini più piccoli lo chiamano “l’università del male”, perché chi come loro deve scontare solo pochi anni di carcere, in quell’arco di tempo si trova soprattutto a confrontarsi anche con i delinquenti. Persone più grandi di loro, che li proiettano nel giro della malavita. Per questo, io dico sempre alle persone che mi conoscono, e sanno il mio cammino da volontario, che un detenuto che esce e viene rieducato è un problema in meno per noi, per la nostra società. Ciò che è importante secondo il mio punto di vista, è cercare di rieducare queste persone affinché quando escono, quando vengono riconsegnati alla società, siano persone migliori e che magari possono cambiare strada e possono diventare delle risorse per noi».

Dopo più di un anno l’associazione “Figli di Barabba” qualche settimana fa ha ripreso le attività in carcere, un anno di restrizioni che ha messo in ginocchio ahimè, anche il mondo del volontariato. Qual è stata la tua prima emozione?

«Quando sono entrata in carcere dopo più di un anno di stop, è stato molto bello. È stato bellissimo ripercorrere quei corridoi, salutare tutti gli agenti di polizia penitenziale che sono sempre molto gentili, molto disponibili. L’unica cosa che mi ha fatto rimanere un po’ male da una parte, ma dall’altra parte sono stata anche contenta, è che il gruppo dei ragazzi che seguivo del corso era completamente cambiato, perché in tutto questo tempo di restrizioni per via della pandemia, molti di loro, per fortuna, sono usciti. Mentre tanti altri sono stati trasferiti o in altri reparti o in altri carceri, quindi mi è dispiaciuto non poterli salutare. Perché noi, quando abbiano stoppato il corso è stato praticamente il venerdì prima che Conte chiudesse tutto, e quindi non abbiamo neanche modo di dire ai ragazzi tutto quello che stava succedendo purtroppo fuori. Con alcuni si crea un vero e proprio rapporto d’amicizia».

di Grazia Sposito

Condividi questo Articolo
Lascia un Commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *