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Vivere il deserto: l’esperienza dei campi profughi Saharawi

Francesco Cimmino 07/12/2019
Updated 2019/12/09 at 4:59 PM
4 Minuti per la lettura

Nel cortile di Via Fornovecchio del Dipartimento di Architettura della Federico II, per un nutrito gruppo di studenti ed architetti, c’è stata la possibilità di partecipare al workshop “Le 4 A”: Agricoltura, Architettura, Artigianato, Arte, ovvero le forme della vita umana necessarie alla sua r/esistenza nel deserto del Sahara.

Gli obiettivi del workshop erano fondamentalmente due: rendere partecipi i presenti in maniera attiva della causa Saharawi e mostrare le metodologie sostenibili.

Il popolo Saharawi vive all’ombra di un lunghissimo muro da più di 40 anni: le terre del Sahara occidentale sono state divise da 2700 km di muro minato da Marocchini e Mauritani. La popolazione è stata costretta a fuggire ed a costruire campi profughi nella vicina Algeria.

Qui, nel cuore del Sahara, si svolge la vita di un popolo che lottando quotidianamente ha saputo adattarsi, ma che nella speranza di tornare a casa cerca soluzioni non definitive, reversibili e sostenibili.

Agricoltura

L’alimentazione è alla base della vita; riuscire a coltivare nel deserto è una vera sfida vinta attraverso la coltura idroponica: le radici non sono nel suolo, ma immerse in una soluzione di acqua e sostanze nutrienti. Nelle zone aride del pianeta è difficoltoso trovare campi adatti alla coltivazione; così è stata introdotta questa tecnica che comporta grande risparmio di risorse idriche, ma anche un minore consumo di suolo.

Architettura

Un capitolo importantissimo per la cultura Saharawi, perché sostanzialmente è un problema. La maggior parte degli edifici, se non sono tende, sono costruiti in mattoni di fango; nonostante i lunghi periodi di siccità, bastano pochi giorni o anche poche ore di pioggia per causare veri e propri disastri. Questo perché non vogliono “case in cemento”, altrimenti risulteranno sconfitti e resteranno per sempre nei campi profughi, lontani dalle loro terre di origine.

L’architetto Tatah Lehbib ci introduce al mondo dell’autocostruzione per vivere in un campo profughi. Ha dapprima insegnato a montare una tipica tenda Saharawi; per poi applicarsi su quello che era l’anima del workshop: costruire un’abitazione con le bottiglie di plastica riciclate. Una soluzione pratica e sostenibile al problema delle case in fango.
Tatah ci spiega che le bottiglie, riempite di terra e unite tra di loro da una speciale malta, insieme agli strati di intonacatura interna ed esterna, assicurano il giusto sfasamento termico nel deserto, caldissimo di giorno, ma freddissimo di notte.

Artigianato

I tessuti usati per la pelle della tenda sono il prodotto del lavoro di mani sapientissime; i peli di cammello si trasformano in oggetti di estrema importanza nella quotidianità Saharawi.

Arte

L’ultima componente della vita, l’anima umana, è rappresentata da una statua di grandi dimensioni che funge da generatrice di spazi; assomiglia alla famosa Atena Promachos nell’Acropoli di Atene.

Il workshop promosso dai professori architetti Emma Buondonno, Mario Losasso e Fulvio Rino, è iniziato con la conferenza “Saccheggio delle risorse naturali nel Sahara Occidentale, pratiche di autogoverno del popolo Saharawi in esilio” alla presenza del sindaco Luigi de Magistris.
“Le quattro A” è stata un’esperienza rara, perché difficilmente in ambito accademico si sente parlare di autocostruzione. Il prof. Fulvio Rino, emozionatissimo davanti ai risultati del workshop, che sono anche il frutto di una vita dedicata al prossimo, ci spiega poi come tutto il materiale recuperato ed usato verrà riciclato senza produrre scarto.

di Francesco Cimmino

TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE N°200
DICEMBRE 2019

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