Anna Mannucci ha venticinque anni, è di Livorno e ha la fibrosi cistica. Una malattia genetica altamente debilitante. Deve essere questo il tranello delle apparenze, quando venerdì 18 dicembre ha dovuto recarsi presso l’ufficio postale del suo paese per poter fare una raccomandata.
E, dietro consiglio dei suoi medici curanti per via della sua condizione, e del fatto che avesse appena lasciato l’ospedale dove era stata ricoverata e la situazione sanitaria delicata in cui versa il nostro paese, ha provato ad avvalersi del suo diritto di saltare la fila per la sua commissione. Ma è successo che Anna, non essendo costretta su di una sedia a rotelle o non avendo specifici tratti somatici che rendesse palese la sua disabilità, è stata ricoperta d’insulti. È stata costretta a mostrare le proprie certificazioni non solo all’addetto allo sportello ma anche al resto dei presenti. Quelli che quella mattina, come lei, avevano una commissione da fare ed erano in fila.
Questo è quello che accade tutti i giorni alle persone costrette a battersi con una disabilità invisibile. Oltre a quella, devono combattere con l’ignoranza di chi proprio non riesce ad aprire la mente al mondo e al resto dei suoi abitanti. Non tutte le disabilità sono visibili, Anna è una ragazza apparentemente come tutte le altre ma con un grosso macigno invisibile che si porta dietro ovunque. Anna racconta che spesso, quando parcheggia sui posti dei disabili, seppur armata di tagliando, viene guardata male perché in pochi vanno oltre l’apparenza. Lungo il suo cammino, spesso tortuoso, ha incontrato tante persone che l’hanno capita e aiutata ma anche tante persone che hanno sminuito la sua malattia. Questo perché continuano a esistere fin troppi San Tommaso che, se non vedono, non credono. Eppure, anche la situazione che stiamo vivendo a causa del Coronavirus dovrebbe insegnarci che spesso “i cattivi invisibili” sono i peggiori.
Anna è una ragazza forte, ma in quel lontano venerdì di dicembre rimane spiazzata da non riuscire a reagire a una tale mancanza di rispetto, e quella sera si sfoga nelle sue storie di Instagram e su Facebook scrive: “Ci tengo a pubblicare anche qua la mia brutta esperienza di ieri pomeriggio alle Poste centrali di Livorno. Non per scatenare polemiche ma perché la mia esperienza possa servire a sensibilizzare il maggior numero di persone possibile su questo argomento che purtroppo nel 2020 ancora conta più la “scatola del contenuto”. Come tutti sapete, io ho la fibrosi Cistica, diagnosticata nel febbraio 1996, pochi mesi dopo la mia nascita. La Fibrosi Cistica è una grave malattia genetica, multi organo e degenerativa. Al 18esimo anno di età mi è stata confermata dalla commissione medica l’invalidità del 100% con inabilità lavorativa. Ieri pomeriggio mi trovavo alle Poste dove, dopo aver atteso 30min ed avendo ancora 100 numeri davanti a me (ad ogni paziente FC si raccomanda di non frequentare luoghi chiusi ed affollati, specialmente in questo periodo di COVID) ho deciso di chiedere allo sportello quale fosse la procedura da seguire essendo invalida (cosa che, nonostante sia assolutamente legittima a farlo, non ho mai “sfruttato”). La signora dello sportello, oltre a mettere in dubbio la mia invalidità, voltandosi alla collega mi ha pubblicamente “umiliata”, davanti anche ad altre persone, dicendo che di solito la fila la salta chi ha “altri” problemi, come difficoltà a deambulare (invalidità apprezzabile dall’aspetto fisico del soggetto) e non quelli come me che “parliamoci chiaro, tu non sembri assolutamente invalida”. Per la prima volta in vita mia mi sono sentita davvero in difficoltà. Non ho saputo reagire se non pregando, davanti a tanto scetticismo, di controllare i miei documenti (patente e tessera sanitaria) e il “pezzo di carta” rilasciato dagli uffici competenti che avevo in foto sul telefono. Mi sono sentita come se fossi appena stata scoperta a fare qualcosa che non dovevo, una ladra, una delinquente…e mi dovessi giustificare in qualche modo. Inutile dire che non ho saputo reagire in quel momento se non cercando di dimostrare qualcosa che non si poteva evincere dal mio aspetto. Mi sono chiesta anche se gli avessi fatto vedere il port e le cicatrici, se fosse bastato a dimostrare che fossi “invalida”. Tutto questo NON perché alla fine non mi abbiano fatto passare avanti saltando la fila ma per non avermi creduto e aver anche solo messo in dubbio, di fronte alla volontà di dimostrare la veridicità di quello che dicevo, che era mio diritto ciò che stavo chiedendo. Vorrei che questo sfogo servisse per sensibilizzare il maggior numero di persone possibile perché si impari a non giudicare dalle apparenze. Alla signora dello sportello e alla collega invece vorrei dire che il dubbio è lecito, di ciarlatani e approfittatori ce ne sono tanti, ma le persone come me che chiedono di poter usufruire di questi PICCOLI vantaggi, portano sempre con se la documentazione necessaria e basta chiedere di poter controllare. senza tirare conclusioni affrettate è poco delicate.”
Ci dobbiamo convincere che non esiste solo ciò che vediamo. Le vere sofferenze, le ferite più profonde non si vedono ad occhio nudo. Ma solo chi ha la capacità e un cuore puro da guardare oltre.
di Grazia Sposito