Il film “Sulla mia pelle” deve essere uno spunto di riflessione per l’intero sistema carcerario

Un cazzotto nello stomaco
Il 22 ottobre prossimo, saranno passati nove anni dalla morte di Stefano Cucchi, raccontata nel recentissimo, drammatico ed emozionante film di Alessio Cremonini. Alessandro Borghi è il giovane attore che interpreta Stefano. In verità, dopo aver visto il film e dopo aver ascoltato nel finale l’audio originale del processo con la voce di Stefano, risulta davvero difficile distinguere l’interpretato dal reale.
Non è un film, è un cazzotto nello stomaco, come c’era da aspettarselo; ma consiglio a tutti di vederlo, perché racconta ciò che accade sempre più spesso negli istituti di pena (dal 2000 al 2018 sono avvenuti oltre 2.800 decessi totali di cui oltre 1.000 suicidi – dato tratto dal sito www.ristretti.it). Il racconto cerca di inquadrare tutte le problematiche del sistema carcerario, senza puntare il dito contro nessuno; in più occasioni gli autori cercano di far emergere anche le difficoltà con le quali gli agenti penitenziari sono costretti a convivere ogni giorno, dovendo combattere, loro malgrado, un sistema che impone su pochi uomini un peso enorme; un peso principalmente costituito da carenze infrastrutturali, organizzative e di personale. Le carenze del sistema provocano irrimediabilmente delle morti, ma tali morti ricadono indispensabile su tutte le nostre coscienze, perché non è possibile far finta che tutto ciò non accada.
La storia di Stefano, per la quale sono ancora in corso dei procedimenti giudiziari, è stata proposta nella semplicità necessaria affinché sia raccontata. Chi vede il film ha la necessità di raccontarlo, pertanto, credo che il primo obiettivo degli autori sia stato ampiamente raggiunto.
Il mio invito è andare a vederlo senza pregiudizi, sapendo che dopo aver ascoltato la voce di Stefano, la vostra coscienza vi impedirà di girarvi dall’altra parte come se nulla fosse accaduto.

Un sistema giudiziario che non funziona
Il sovraffollamento dei penitenziari italiani è un dato desolatamente noto per chi opera nel sistema giudiziario. Uno dei tanti segni di inciviltà del nostro sistema che porta con sé il fardello di disagi umani che spesso sfociano in veri drammi. Vivo a contatto quotidiano con persone ristrette ed il dato che li accomuna è l’aver vissuto un’esperienza che, prima della libertà, li ha privati della dignità e delle più elementari esigenze di vita.
Anche curarsi, in carcere diventa un’interminabile attesa, spesso inascoltata. Un esame diagnostico diventa una chimera. Sovente gli enti rappresentativi della categoria forense hanno indetto astensioni per contestare questo sistema, ma il più delle volte inascoltati da una classe politica troppo legata a provvedimenti spot che incidono poco e male. In Italia, il ricorso frequente e disinvolto al carcere preventivo è diventato un macigno spregiudicato che ingolfa gli istituti di pena e crea mostri sociali. Troppe leggi hanno seguito la strada sbagliata per affrontare un problema che nei numeri mostra un livello non più accettabile. Anche quando la novità legislativa è apprezzabile, pensiamo allo “Svuota carceri” previsto dalla Legge 199/2000, la buona volontà del legislatore si infrange contro la lentezza e le inefficienze di una macchina amministrativa moribonda, dove mancano assistenti sociali, cancellieri e magistrati in numero sufficiente. Al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, alcune volte, possono volerci anche tre mesi, affinché un magistrato di sorveglianza decida sulla richiesta di espiazione domiciliare della pena. Al cospetto di questo mostro amministrativo/burocratico è facile intuire le sofferenze di coloro che si trovano strozzati in un meccanismo disumano e, quindi, si lasciano andare. Un anno fa apprendevo con sgomento della tragica morte di un mio cliente in carcere.
La restrizione evidentemente aveva annullato ogni sua speranza. Lo avevo incontrato pochi giorni prima in udienza e non avrei mai pensato ad un finale così tragico. Purtroppo questo non è un evento isolato, e negli ultimi anni in crescita.
Il racconto della storia di Stefano Cucchi accende una luce su questo mondo e impone a tutti noi una riflessione seria, al di là della singola storia narrata.