Negli anni venti, gli Italiani emigravano negli Stati Uniti per inseguire il “Sogno Americano”. Un sogno fatto, spesso, di sfruttamento ed ingiustizie. Come quelle subite da Sacco e Vanzetti.
Un paio di anni fa, su Twitter, venne fuori un hashtag che generò non poche controversie. Si trattava di un tema lanciato da account troll e apriva la questione del #ItaliansAreBlack: ossia un pacato (si fa per dire) scambio di opinioni sul fatto che gli italiani vengano percepiti come persone di colore dagli americani.
Ancora oggi, per intenderci, ci sono americani in giro che credono che il vulcano Etna sia stato costruito artificialmente con camion di sabbia. La cosa interessante di un hashtag ridicolo lanciato su Twitter, è stata osservare la reazione indignata degli Italiani, che ha origine negli anni in cui eravamo noi i migranti che cercavano un Nuovo Mondo, proprio come le persone che oggi sbarcano sulle nostre coste e alle quali riserviamo trattamenti non sempre ospitali. Un ottimo modo per esercitarsi in questa pratica può essere ricordare una storia. La vicenda di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, detti anche “Nick and Bart”, è forse uno dei pezzi di storia del Novecento che più è rimasto impresso nell’immaginario collettivo degli anni successivi. Non si tratta infatti di un racconto che coinvolge i grandi protagonisti della storia del nostro Paese, non si parla di dittatori, di eroi militari, condottieri o grandi scienziati, ma solo di due persone che come tantissime altre in quegli anni si erano trovate a dover cercare una vita migliore da qualche altra parte.
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, infatti, noi italiani – come ben sappiamo, visto che basta osservare anche solo la quantità enorme di nostri cognomi che ci sono negli Stati Uniti, ma anche in Australia e in Sud America – ci siamo trovati dalla parte di chi lascia la propria terra per una necessità. La storia di Sacco e Vanzetti, a questo proposito, risulta particolarmente emblematica, dal momento in cui dà prova del fatto che anche cento anni fa erano i nostri connazionali a essere etichettati come criminali anche se erano brava gente, proprio come facciamo noi italiani con i pregiudizi che nutriamo oggi. Eppure, si trattava di due uomini bianchi – considerati spesso invece neri, specialmente se erano Meridionali – italiani e onesti lavoratori. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, non solo erano italiani, ma anche anarchici. E la loro grande sfortuna, ciò che li portò a sedersi ingiustamente sulla sedia elettrica il 23 agosto del 1927, è stato il fatto di essere al contempo non solo parte di una razza ritenuta inferiore, membri di una comunità parassita, inutile e fatta solo di criminali come quella italiana – perché era questa la percezione che gli americani avevano di noi – ma anche quello di ritrovarsi in un Paese come gli Stati Uniti che non solo dava spazio a queste forme di intolleranza e razzismo spietate ma anche a un fenomeno che viene chiamato “the red scare”.
Tra gli attivisti che lottavano per una società migliore, senza sfruttamenti né soprusi e in nome dell’uguaglianza, c’erano anche degli italiani – come per esempio l’anarchico Gaetano Bresci, responsabile dell’uccisione del Re Umberto I – motivo per cui già all’inizio del Novecento il Governo americano cominciò a emanare leggi che negassero l’ingresso negli Stati Uniti a immigrati con opinioni anarchiche. Sacco e Vanzetti, dunque, si trovavano schiacciati da una doppia morsa: colpevoli perché italiani, e dunque criminali in modo intrinseco, e colpevoli perché anarchici. Così come Andrea Salsedo, un altro anarchico che venne arrestato illegalmente, torturato e poi buttato giù da una finestra di un ufficio dell’FBI , Sacco e Vanzetti vengono processati per un crimine da loro non commesso, solo per fungere da capri espiatori di una lotta a un fenomeno che minacciava lo strapotere dei “padroni” americani.
Affinché fosse chiaro che gli Stati Uniti non accettassero da fuori personaggi che mettevano a rischio un equilibrio basato sulle disuguaglianze, i due anarchici italiani furono il campo di prova per una politica della repressione, attraverso una condanna che generò dieci giorni di protesta davanti al palazzo del Governo, a riprova della sua estrema simbolicità. Eppure, nonostante le proteste e l’indignazione di chi sapeva bene che si trattava di un’ingiustizia enorme – persino Mussolini se ne era reso conto – solo cinquant’anni dopo, nel 1977, venne riconosciuto dal governatore del Massachussets Michael Dukakis(futuro candidato alla corsa presidenziale per i Democratici) che i due italiani non erano colpevoli, anche se ciò non equivalse all’assoluzione. A contribuire a quest’opera di riabilitazione e di giustizia postuma fu un film di Giuliano Montaldo, uscito nel 1971 rimise in discussione tutta la vicenda, generando una seconda ondata di supporto agli anarchici ingiustamente processati mezzo secolo prima. Per quanto possano essere stati riabilitati dal corso della storia questi due uomini però, la vicenda che Montaldo racconta nel suo film deve darci lo spunto per rivedere cosa stiamo sbagliando nel presente.
Chi usa come scusa la questione del “Noi migravamo per lavorare, loro per rubare”, si deve ricordare proprio di questa storia per rendersi conto che è un’argomentazione fuori luogo: ci sono migranti che si ritrovano coinvolti nella criminalità per disperazione, ci sono lavoratori, ci saranno anche malavitosi e sfruttatori, ma prima di tutto ci sono persone.
Sacco e Vanzetti erano due lavoratori che avevano anche la sfortuna di voler credere in ideali di uguaglianza e rispetto del genere umano, cosa che gli è costata la vita. Nessuno – account troll a parte – pensa che gli italiani siano “neri”, molti però pensavano che fossero delle bestie, e non bisogna andare lontano per percepire atteggiamenti razzisti anche nei nostri confronti da parte di popoli più ricchi e stabili di noi. È sempre bene ricordarsi le storie del passato e tenere sempre ben presente che potremmo essere noi nei panni dei più sfortunati per evitare di compiere gli stessi errori e magari anche di ricevere di nuovo il benservito e agire perché l’ingiustizia non si ripeta.
di Nicola Dario