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Smart working e Covid-19. La digitalizzazione seguirà il suo corso?

Angela Di Micco 28/03/2020
Updated 2020/03/28 at 4:58 PM
8 Minuti per la lettura

Essere a conoscenza del nuovo linguaggio dei media o competenze digitali, è una delle “skills” richieste nel mercato del lavoro.

Una ricerca dell’Institute for the future di Palo Alto ha infatti affermato che insieme al cambiamento del mercato del lavoro, anche le competenze dei lavoratori sono destinate ad una evoluzione, tanto che non basterà più sapersi districare tra i file o un power point, ma si deve essere in grado di padroneggiare tra video, podcast ed altri strumenti all’avanguardia. Una delle conseguenze della digitalizzazione del lavoro è lo smart working, definito dall’’Osservatorio del Politecnico di Milano ”una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Un cambiamento radicale quindi non solo per le aziende. Un processo complesso che modula la qualità della vita e la produttività individuale dove le nuove tecnologie la fanno da padrona. La Digital Transformation infatti usa le tecnologie avanzate per connettere persone, spazi, oggetti ai processi di business per aumentare la produttività, innovare e coinvolgere persone e gruppi di lavoro. Le attuali condizioni di emergenza del COVID-19 hanno modificato con le limitazioni imposte, il mondo del lavoro e del business?

Nelle zone maggiormente a rischio, le aziende che non adottavano già una politica di “lavoro agile”, hanno dovuto fare i conti con la nuova metodologia lavorativa, attivando uno smart working di fatto. Questo contesto ha accelerato, secondo gli economisti l’adozione di quel lavoro agile riconosciuto giuridicamente in Italia con la Legge 81 del 2017.

L’esplosione del “lavoro da casa” è segnato anche dall’aumento del traffico dati dal 20% al 50%. Prima dell’emergenza Covid -19 infatti, nel nostro paese 570 mila lavoratori (il 2% dei dipendenti) usufruiva del lavoro agile, contro il 20,2 % del Regno Unito, il 16,6% della Francia e l’8,6% della Germania.

La questione assume però anche un carattere normativo. Sia se si parli di “telelavoro” o di “smartworking” , le società devono avere un server abilitato per le connessioni esterne; un sistema in grado di far accedere ad una scrivania virtuale dell’ufficio e dialogare con i file dell’azienda, attraverso password e autentificazioni. I lavoratori del nostro paese si sono quindi ritrovati nel più grande esperimento a distanza mai attuato, tanto che il Ministero del Lavoro ha calcolato un aumento di 554,754 smart worker dopo l’emergenza sanitaria. Lo sprint alla “trasformazione digitale” sta però portando al pettine i nodi presenti da tanti anni. In Italia la banda ultraveloce ha raggiunto il 24% della popolazione (l’UE ne conta il 60%), ma ciò non consente ad altre 11,5 milioni di persone di utilizzare una connessione internet per uno smart working efficiente. Si parla soprattutto di zone di montagna o di periferia, ma anche di quartieri delle grandi città. In questo periodo di emergenza COVID ad esempio, nelle regioni maggiormente colpite Lombardia, Emilia Romagna e Veneto in ben 2349 comuni non si può svolgere lo smart working o il telelavoro.

Nonostante l’Italia abbia dato un’accelerata al processo di digitalizzazione, il gap rispetto agli altri paesi europei è notevole: in un rapporto del CER (Centro Europa Ricerche) si evidenzia come il nostro paese, anche se gli altri del Sud Europa sono in ritardo su questo spetto, si posiziona al quint’ultimo posto nella classifica europea. Il primato va alle economie del Nord: Danimarca, Finlandia, Olanda, Lussemburgo e Regno Unito, mentre per gli altri si segnala un grave deficit di digitalizzazione per le imprese, le famiglie e la pubblica amministrazione.

Verso chi dobbiamo puntare il dito?

Possiamo dire che dal 2015 quando partirono i lavori per coprire le zone non connesse, una serie di ricorsi ed intoppi burocratici contro la società che si era aggiudicata la concessione, hanno permesso solo al 20% della popolazione l’utilizzo della banda ultralarga.

C’è da dire anche che le persone non sono ancora abituate a pensare al digitale, come non lo sono le aziende: anche laddove internet è presente infatti, l’arretratezza culturale e lo scarso interesse delle piccole aziende (nell’ultimo anno dal 38% al 51% indagine del Politecnico di Milano) non permettono un’operatività digitale.

In questo contesto di emergenza dove tutti siamo stati “costretti” al telelavoro, le società hanno dovuto mettere in pratica l’arte di arrangiasi: si sono infatti ritrovate con gli stessi dipendenti ma che non erano in grado di utilizzare i programmi. Nelle stesse acque naviga la Pubblica Amministrazione che per legge dal 2018, dovrebbe consentire al 10% del personale lo smart working. Si scopre invece che solo il 16% dei dipartimenti ha aderito a tele iniziativa e con addetti poco digitalizzati.

Fatto è che la sperimentazione non sta avvenendo nel migliore dei modi. Si pensi infatti che proprio per l’emergenza sanitaria, molte aziende così come la PA hanno consentito ai propri dipendenti di lavorare da casa utilizzando il proprio computer, purché non si aumentino i costi per gli uffici pubblici. Le grandi imprese invece che già da tempo si erano organizzate, pare reggano nel migliore dei modi all’ordinanza ministeriale. Società di telecomunicazioni, grandi banche, assicurazioni, utility, e anche le fabbriche più avanzate non hanno dovuto stravolgere il loro piano. La Siemens ad esempio aveva già 3.300 dipendenti in s.w., oppure l’ Eni che aveva 4.500 in modalità smart, e,in emergenza se ne sono aggiunti altri 11.000 e cosi tante altre grandi società che, in pochi giorni non hanno avuto difficoltà nel continuare la propria attività lavorativa in s.w. (Qui l’elenco delle aziende. Fonte documento: dataroom Gabanelli)

Questa tipologia di continuità lavorativa obbligata con il telelavoro nell’attuale contesto di pandemia COVID, di certo non deve diventare una “normalità”.

Anche se una ricerca DOXA ha evidenziato che il 90% delle aziende è  soddisfatta dei risultati in termini di efficienza e operatività, ci si auspica che nel prossimo futuro, ad emergenza terminata ci sia una negoziazione di questa modalità lavorativa sia a livello individuale, aziendale che nei contratti collettivi.

 

di Angela Di Micco

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