L’associazione Yabasta! nasce nel 2009, a Scisciano, con l’obiettivo di istituire un luogo d’incontro, una forma alternativa di aggregazione giovanile che possa rispondere alle esigenze territoriali. Grazie a loro oggi, dopo quasi 13 anni, Scisciano diventa un vero e proprio modello sociale.
Da quasi due anni, infatti, i giovani dell’associazione, assieme all’associazione Restiamo Umani, hanno aperto un SAI (Sistema Accoglienza Integrazione) che rappresenta un esempio virtuoso di come sia possibile creare integrazione e condivisione tra diverse etnie, culture e religioni, scacciando i rischi del lavoro nero e della malavita.
Il giro che Ayoub, mediatore culturale del centro d’accoglienza, ha organizzato per noi attraverso il comune di Scisciano, mi ha riportato indietro a quello con cui Mimmo Lucano ci presentò la sua Riace. Queste esperienze portano con sé, oltre che gli stessi ideali, anche lo stesso entusiasmo, lo stesso senso di appartenenza e lo stesso coraggio.
La scuola di italiano, lo sportello diritti, il doposcuola e la ciclofficina della pace sono solo alcuni dei servizi che offrono al territorio già da diversi anni, in cooperazione con le associazioni Nova Koinè e Casa della Solidarietà Sabino Romano, e che affiancandosi al progetto SAI garantiscono un’integrazione a trecentosessanta gradi.
«Il SAI ospita 60 persone in un totale di 7 case. Ogni ragazzo è seguito da una psicologa, un’educatrice, un assistente sociale e un mediatore di bengalese. In più forniamo biciclette così che possano venire alle lezioni e andare in stazione. La maggior parte dei nostri ragazzi vengono da Pakistan, Bangladesh, Nepal, ma abbiamo adibito nuovi posti per l’emergenza ucraina» – ci racconta Ayoub.
Il SAI di Scisciano si compone di case ospitanti un piccolo nucleo di migranti, lontane tra loro. Anche questo è volto a favorire l’integrazione?
«Noi siamo per i centri SAI piccoli, dislocati in più punti della città, così che non si creino ghetti. A Scisciano con 50 posti abbiamo tolto dalle strade persone che potevano vivere in povertà, andare in mano alla criminalità o nel giro del lavoro nero, che è quello che non fa entrare denaro nelle tasche dello Stato e che dobbiamo pagare noi con le tasse. Se ogni comune facesse questo l’immigrazione e l’integrazione smetterebbero di essere un problema».
Come hanno sostenuto i SAI l’ondata migratoria ucraina?
«Il sistema SAI è sempre stato sottovalutato. Con l›emergenza ucraina invece si è capito che si possono gestire bene anche numeri triplicati. Allora perché dobbiamo continuare a pagare soldi per trattenere le persone nei lager in Libia, negando loro la possibilità di attraversare, se sappiamo che possono trovare una sistemazione? I centri d’accoglienza funzionano e possono dare ancora di più».
La politica migratoria e la risposta dell’opinione pubblica riguardo all’emergenza ucraina sono diametralmente opposte a ciò a cui abbiamo assistito in questi decenni di migrazioni. Come viene percepita questa differenza all’interno del centro SAI?
«La differenza più grande riguarda quanto e come le persone si sono mobilitate ed è molto percepita da tutti i ragazzi. Mesi prima avevamo chiesto una mano per la situazione in Afghanistan, sono arrivate alcune donazioni ma non in questa misura. Forse questa guerra è sentita come più vicina, forse è perché si tratta di Europa, o forse è perché sono bianchi. Noi stiamo ancora parlando della guerra in Ucraina, ma intanto in Afghanistan ci sono i talebani e nessuno ne parla più. Quando la Polonia non ha fatto passare i siriani alla frontiera la cosa non ha avuto nessun risalto mediatico, ora tutti parlano di quello che sta facendo per gli ucraini».
L’emergenza ucraina non ha avuto impatto solo sul centro SAI ma anche sulla scuola di italiano, i cui studenti sono passati da 100 a quasi 200, ospitati al Castello Ducale di Marigliano.
«Le classi si dividono in un corso di base e avanzato. Alla fine del corso gli studenti ottengono un certificato di A2 che li fa accedere all›esame di terza media. Anche se molti sono adulti e laureati nel loro paese, qui non hanno titoli o non possono convertire i propri. Avere una qualifica in Italia li può aiutare anche per il permesso di soggiorno- ci spiega Eleonora, insegnante di lingua italiana nella nuova classe ucraina- molte organizzazioni ci lucrano sopra perché per avere il permesso, almeno per quello di 5 anni, si ha per forza bisogno dell’A2. Noi spieghiamo ai ragazzi che se imparano l’italiano possiamo aiutarli attraverso dei tirocini retribuiti, ultimamente siamo riusciti ad attivarne molti. Cerchiamo di aiutarli a trovare una stabilità economica restando fermi nella lotta contro il mercato nero del lavoro».
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE
N°228 – APRILE 2022