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“Sacrificio dello zucchero”: donne senza utero per poter lavorare

Elisabetta Rota 01/04/2023
Updated 2023/04/01 at 11:49 PM
5 Minuti per la lettura

In India ogni anno, per sei mesi, nella citta’ di Beed, si raccoglie la canna da zucchero. Un’attività che impiega soprattutto la manodopera delle donne. Quest’ultime vengono reclutate dai “mukadam”, degli agenti pagati dai proprietari delle piantagioni per reclutare quante più persone possibili da impiegare nel lavoro, già dall’età di 10 anni. Sono proprio i mukadam, che essendo addetti al controllo dei lavoratori e della loro produttività, sospingono le donne verso la isterectomia. Il 36% delle lavoratrici si sottopone a questo intervento finalizzato alla rimozione dell’utero che le “libera”, così, dal peso delle mestruazioni e di una possibile gravidanza. Entrambe le cose, ostacolerebbero le loro ore di lavoro e di conseguenza il loro guadagno. Da qui il termine “sacrificio dello zucchero”, le donne rinunciano ad una parte di sé rimanendo imprigionate in una spirale di infezioni, dolori e difficoltà che, non solo mettono a rischio la propria produttività, ma anche la propria vita.

Le condizioni delle “sugar girls”

Le condizioni di lavoro sono estremamente dure: sveglia alle 3 di notte, oltre 10 ore di lavoro con qualsiasi condizione fisica e metereologica e un solo giorno di riposo al mese. Durante i mesi di lavoro, vivono in tende istallate dai titolari delle fabbriche di zucchero, senza acqua corrente né luce. A causa delle cattive condizioni igieniche, molte donne prendono infezioni e questo incentiva il loro capo e i medici senza scrupoli ad incoraggiarle a sottoporsi ad un intervento di ablazione totale.

Una donna su tre è stata sottoposta all’intervento irreversibile già a 20 anni, con gravi conseguenze fisiche. L’isterectomia provoca una menopausa molto precoce in quanto blocca la produzione di ormoni e le rende sterili, portando il corpo a sviluppare fibromi o endometrosi. A 30 anni coloro che hanno eseguito l’intervento sembrano averne 50, con volto e corpo invecchiati prematuramente. «Alcune volte, quando ci rifletto, non sono diversa da una macchina». È così che si autodefinisce una delle donne intervistate dell’emittente France Télévisions per un reportage del 2022 intitolato “Le sacrificate dello zucchero”.

Molte delle patologie riscontrate dalle donne, però, sono dovute anche ad altri fattori. L’esposizione ai metalli pesanti, l’inquinamento ambientale e l’uso di pesticidi e fertilizzanti agricoli indebolisce il sistema immunitario delle lavoratrici causando loro continue malattie. Per i proprietari delle piantagioni e i “mukadam” tutto ciò non è loro responsabilità. Quest’ultimi considerano questo fenomeno legittimo poiché le donne scelgono autonomamente di sottoporsi all’intervento per poter guadagnare di più. Prendono le distanze sostenendo che non possono dire alle lavoratrici come spendere i propri soldi.

Un eccesso di zucchero

L’India è il più grande produttore mondiale di zucchero, ma è anche uno dei Paesi con il più basso consumo pro capite. La domanda interna, dunque, è minore dell’offerta. Se tutto lo zucchero in eccesso venisse venduto sul mercato indiano, i prezzi crollerebbero con gravi danni per l’intera filiera. È per questo che il governo paga ingenti sussidi per esportare milioni di tonnellate. Per risolvere questo problema, la lobby dei produttori privati e statali della Indian Sugar Mills Association stanno cercando di vendere agli indiani più zucchero attraverso campagne web e incentivi vari. La popolosa India, però, è già il più grande consumatore di zucchero al mondo, in media ogni cittadino ne utilizza 19 chili all’anno.

A tal punto, è impossibile non porsi delle domande. È davvero necessario l’impiego di un numero così elevato di lavoratrici? Se grandi quantità di zucchero producono grandi guadagni, perché quest’ultimi non vengono utilizzati per garantire un mercato del lavoro dignitoso e sicuro? L’industria dello zucchero è responsabile della vita amara che conducono le donne vittime di soprusi e violazioni; costrette a sacrificare il proprio corpo per riuscire a mantenere la propria indipendenza.

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