RUBRICA DIRITTI. Il diritto all’amore (anche) in carcere

Redazione Informare 11/05/2023
Updated 2023/05/11 at 10:22 AM
9 Minuti per la lettura

Lo stato di detenzione in carcere non annulla il diritto all’affettività e alla sessualità, da qui l’esigenza che il legislatore ne definisca modi e limiti di esplicazione. Questo il monito che la Corte Costituzionale rivolse al legislatore nel lontano 2012. Con quella pronuncia la Consulta dichiarava l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui prevede il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, in tal modo impedendo loro di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza. Era necessario – e lo è tuttora – un intervento del legislatore, per colmare le lacune dell’attuale disciplina.

L’istituto dei permessi premio, infatti, si rivela inadeguato a garantire alle persone detenute di continuare a coltivare le proprie relazioni. La fruizione dei permessi, infatti, è preclusa a larga parte della popolazione carceraria in virtù dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dall’art. 30 ter della legge 11 giugno 1954, n. 354. Per i detenuti che non possono fruire di permessi premio, il punto di contatto con l’esterno è dato dai colloqui, che presentano, tuttavia, plurimi profili di inadeguatezza. In primo luogo, il tempo riservato ai colloqui è infatti estremamente ridotto (di regola un’ora, eccezionalmente due) e tale da non consentire uno scambio adeguato tra il detenuto ed il familiare. Peraltro, i colloqui dei detenuti spesso si svolgono in sale affollate, molto rumorose, sotto il controllo visivo del personale di custodia, ostativo a qualsiasi manifestazione d’affetto.

In attesa di un intervento legislativo, non resta che volgere lo sguardo ad altre realtà. Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera: in questi e in altri Stati è prevista la possibilità di usufruire di appositi spazi penitenziari nei quali il detenuto, lontano dallo sguardo del personale di custodia, può trascorrere diverse ore insieme al proprio partner. Siamo lontani anni luce dallo scenario del carcere italiano, dove il mondo dietro le sbarre è la negazione della relazione e dell’affettività. Un ostacolo che si aggiunge ai tanti nel percorso verso l’inserimento del reo nella società, come ci spiega il Garante dei detenuti della Regione Campania, il Prof. Samuele Ciambriello.

Quali sono gli ostacoli che il carcere italiano incontra nel progetto rieducativo del reo?

«Non è corretto parlare di rieducazione o di reinserimento. La stragrande maggioranza delle persone in carcere non ha ricevuto alcuna educazione. Solo se hai avuto un’educazione e commetti un reato devi essere rieducato. Il carcere deve, però, portare al superamento di criticità importanti. In primo luogo, della precarietà psicoaffettiva, sociale ed economica, della mancanza di cultura, della non conoscenza di valori di legalità, della bellezza. Il carcere da solo non può fare tutto questo perché ha una visione carcerocentrica di custodia. Inoltre, il carcere, ad oggi, è una discarica sociale, che reclude tossicodipendenti, immigrati, gli ultimi della società. Peraltro, di 56mila detenuti, solo 10mila sono in carcere per reati gravi o associativi».

Come far fronte a simili problematiche?

«È importante comprendere che dietro ai reati ci sono le persone, quindi, bisogna vivere l’accudimento piuttosto che il contenimento. Non essere crudeli non esaurisce il progetto concreto di ethos sociale che deve arrivare anche ad un fare, a un muoversi, ad un operare attivo. Bisogna muovere dal presupposto che chi commette un reato è anche altro rispetto ai suoi errori. È importante incentivare lo svolgimento di attività, impedendo che la giornata del carcerato si riduca a 20 ore sulla brandina. Occorre assicurare, da un lato, la certezza della pena; dall’altro, deve essere preservata la qualità della vita, nella tutela del diritto alla salute, al lavoro, allo studio, alle relazioni, alle attività: teatro, musica, attività ludiche che creano emozioni e creano empatia, recuperano emotività. È opportuno passare dalla reclusione all’inclusione.

Meno carcere significa più relazione tra esseri umani e quasi sempre significa meno delitti. Il carcere come azienda è fallito se il 70% degli ex detenuti ci fa ritorno. Al contrario, tra coloro che si sono visti destinatari di misure alternative al carcere, pochissimi tornano a delinquere. Quindi, dobbiamo incrementare i luoghi alternativi al carcere. In parallelo, dobbiamo liberarci della necessità del carcere. In parallelo, è opportuno intensificare la giustizia riparativa, la mediazione penale. Quale carcere vogliamo? Un sistema penitenziario di 56mila detenuti che rischiano di aumentare in maniera esponenziale dando vita ad un ospizio dei poteri o un carcere come estrema ratio, solo per reati gravi, che contiene un numero massimo di 20-30mila unità?».

È possibile creare legami sani all’interno del carcere o mantenere le relazioni con l’esterno?

«La realtà del carcere è la negazione delle relazioni. Il carcere è il luogo in cui un uomo reclude un altro uomo che, a sua volta, può fare una telefonata a settimana e avere un colloquio di un’ora. I colloqui, peraltro, si svolgono in ambienti senza aria condizionata, senza luce, senza la possibilità di abbracciare un congiunto. A volte i visitatori fanno lunghe code per poter entrare. Che immagine può avere, poi, un figlio, di un genitore dietro le sbarre? Sarebbero necessari spazi in cui le relazioni umane e affettive possono essere valorizzate. Dovremmo intensificare gli spazi aperti. Dobbiamo aprire dei ponti tra dentro e fuori. Se l’anagramma di carcere è cercare, dobbiamo aiutare il diversamente libero a ritrovarsi rispetto alla persona e alla cittadinanza che ha offeso».

Che incidenza ha la sessualità sul percorso in carcere?

«La sessualità è importante come equilibrio, come recupero delle emozioni, rinsaldamento nei rapporti affettivi familiari. La magistratura di sorveglianza ha un ruolo importante, perché attraverso i permessi premio può incoraggiare gradualmente un ingresso in una vita normale, tramite il consolidamento dei legami affettivi. In tutta Europa, per coloro che non hanno ancora la possibilità di avere permessi premio, è prevista la possibilità di usufruire di luoghi di affettività, di sessualità. L’Italia non è ancora preparata a questo diritto. Un messaggio di speranza viene da Poggioreale, dove a febbraio l’amore ha superato i pregiudizi: dietro le sbarre, due uomini si sono uniti civilmente. Dobbiamo superare i pregiudizi. Ha pregiudizi chi collega l’omosessualità e le violenze in carcere alla mancanza di sesso e all’instabilità psichica. A questo pregiudizio l’amministrazione penitenziaria pone rimedio disponendo l’assegnazione dei detenuti e degli internati per i quali si possono prevedere delle aggressioni da parte degli altri detenuti in ragione dell’identità di genere. Si pensi agli omosessuali, ai trans. Senonché, non ci sono detenuti in questi reparti che svolgono attività lavorativa perché sono isolati. La carenza di ginecologi ed endocrinologi ostacola il trattamento ormonale.

L’isolamento, inoltre, pregiudica la partecipazione alle attività rieducative, l’accesso alle attività scolastiche, formative. La distinzione per identità di genere comporta spesso anche il trasferimento verso istituti che sono dotati di queste sezioni protette con il conseguente allontanamento della persona ristretta dalle proprie famiglie, in deroga al principio della territorialità della pena, che va scontata nel luogo del radicamento familiare. Non poter incontrare in modo continuativo i familiari genera inquietudine. Dobbiamo, invece, pensare al carcere come ad un luogo in cui uno che ha sbagliato e che era squilibrato può essere educato a riequilibrare il proprio equilibrio psichico e sessuale e a superare le proprie paure».

di Edna Borrata e Ilaria Ainora

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