Quasi ogni giorno Ciro Pipoli esce di casa con la sua Nikon 3200 mosso da un’unica ragione: scovare situazioni tipiche del quotidiano napoletano per immortalarle nei suoi scatti o in brevi video. Non cerca l’immagine da cartolina lui che viene scambiato per turista complice la chioma bionda e la facilità del click. Non smette di guardare con occhi innamorati la città che lo ha messo al mondo ma più di altri sa che la metropoli partenopea meriterebbe una comprensione che non tutti concedono, per questo ogni sua foto è un vivido riscatto verso preconcetti datati e retrogradi. Con oltre 54 mila follower condivide l’essenza della città con chi come lui la vive ogni giorno e ancor di più con chi la rimpiange.
Chi c’è dietro l’obiettivo? Chi è Ciro Pipoli?
«Dietro all’obiettivo c’è uno dei tanti napoletani innamorato della propria città. Sono un ragazzo di Napoli, dei Quartieri Spagnoli, che attraverso la fotografia ha trovato un mezzo di comunicazione equo a far rivalutare l’immagine di questa città a tante persone. Credo di dare voce a una città in evoluzione, ma chi sa immergersi può ancora riscontrare una vecchia Napoli che continua a sopravvivere».
Come nasce la tua passione per la fotografia?
«Per curiosità, all’età di 16 anni ho iniziato per gioco a fare qualche foto con il cellulare. Ai 18 mi fu regalata la mia prima ed unica macchina fotografica. Sono 7 anni che scatto con la stessa camera, poi con Instagram ho avuto la possibilità di esprimermi su ampia scala: è una vetrina dove puoi raggiungere facilmente un numero di persone. Ho continuato a fare fotografia e continuo a farla, quella che è stata sempre e solo una passione e che è ancora principalmente una passione a volte si è trasformata in lavoro».
Perché fotografi Napoli?
«Perché la amo, è questo che mi spinge a fare foto. A me piace narrare la città, raccontarla e approcciare alla gente principalmente. Vivo nei Quartieri Spagnoli, sono il primo a poter constatare i pregi e i difetti che ci sono, però quando la vivi quotidianamente e ne apprezzi le qualità positive è difficile cambiare idea. Chissà quante persone sono fuori da Napoli e nonostante l’hanno odiata mentre erano qui perché non trovavano lavoro oppure hanno vissuto brutte situazioni, nel momento in cui sono distanti si accorgono di quanto la amino. Il problema è riuscire ad amarla mentre sei qui».
Qual è il messaggio dietro i tuoi scatti?
«Scatto in posti che hanno la nomea di essere quartieri difficili, attraverso la mia fotografia lancio il messaggio di poter andare oltre il pregiudizio. Rispetto a tanti anni fa i quartieri come il mio, il Rione Sanità, Forcella sono diventati posti diversi. Se oggigiorno centinaia di turisti vanno a vedere il murales di Maradona nei Quartieri Spagnoli vuol dire che qualcosa è cambiato perché prima nei Quartieri Spagnoli non avrebbero mai messo piede. C’è un adattarsi all’epoca e sfruttare il territorio, un posto che ha una brutta nomea attira e forse attira più di un posto con una buona nomea».
Racconti Napoli al mondo, come ti fa sentire essere regista della pellicola partenopea?
«Fin quando non ricevo certi messaggi sono molto tranquillo, a volte leggo parole che mi fanno capire di star facendo la cosa giusta. Capita spesso che mi arrivino messaggi privati da ragazzi e ragazze che vivono fuori e mi ringraziano perché grazie a me si sentono più vicini a casa. È sorprendente come, senza consapevolezza, per tante persone sto facendo qualcosa che li fa stare bene. Non lo vengo a sapere quotidianamente, alcuni mi scrivono ma chissà quante altre persone non lo fanno e inconsapevolmente per loro faccio qualcosa di buono».
Le tue foto riscattano Napoli?
«Si, indubbiamente. Mi sono focalizzato su questo modo di fare fotografia perché credo che l’anima di questa città siano le persone. Penso che per capire Napoli si debba andare in giro, immergersi nelle strade e relazionarsi ai napoletani perché altrimenti non puoi capire com’è. Fare il giro turistico può farti arrivare a dire quanto sia bella però non riusciresti a capirla. Guardare senza viverla lascia solo un buon ricordo, immergersi nella città permette di comprendere dinamiche e pregiudizi che sono difficili da oltrepassare. Il turismo a Napoli è triplicato rispetto a qualche anno fa quindi la nuova generazione di italiani e di stranieri va oltre a vecchi preconcetti».
Molti dei tuoi soggetti sono persone del posto, incontrate sul momento. Come approcci a loro prima di fotografarle?
«È sempre molto soggettiva la cosa, dipende da chi mi ritrovo davanti. A volte le fotografie nascono per puro caso, in altri momenti invece nascono da una chiacchierata e successivamente chiedo di poter fare uno scatto. Una chiacchierata quasi 9 volte su 10 la faccio sempre, chiedo il nome, quanti anni hanno per portarmi un ricordo di quella persona. In alcuni casi è capitato di rivederli una seconda volta dopo la mia promessa di consegnargli la stampa dello scatto. È bello constatare che quando le rincontro si ricordano di me».
Nasci e cresci a Napoli, non hai mai pensato di spostarti e lasciare questa città?
«Qui è una contrapposizione di sentimenti. Da un lato c’è la consapevolezza che è difficile poter crescere lavorativamente, dall’altra c’è un mai dire mai. Fino a qualche anno fa il pensiero di andare via non mi avrebbe mai sfiorato, la mia speranza è quella di poter rimanere qui però nella vita nulla è certo. Hanno lasciato Napoli personaggi illustri come Totò, Pino Daniele. Il loro pensiero è sempre stato rivolto a Napoli perché questa è una città che porti con te, ti resta dentro e ti porta ad essere la persona che sei. Io credo che la città in cui vivi ti formi, Napoli soprattutto».
Hai scattato la campagna pubblicitaria P/E 2020 per Dolce&Gabbana tra il Lungomare e la Sanità. Come hai mixato la napoletanità con i modelli, i capi e i luoghi?
«Ho avuto l’opportunità di esprimermi senza timore di sbagliare perché stavo facendo quello che già faccio, e inoltre ho avuto modo di mostrare la città. Per me è stato sorprendente non avendo mai studiato fotografia, ciò che ho apprezzato del lavoro è che hanno dato a me la possibilità di scegliere dove scattare. Ho proposto io il Rione Sanità, mi faceva piacere l’idea di poter dare ad un quartiere che ha sempre avuto una nomea negativa la possibilità di essere al centro dell’attenzione. Abbiamo scattato tra fruttivendoli, pescivendoli, abbiamo chiesto a gente a caso per strada se volessero partecipare. Ci siamo intavolati in situazioni divertenti. Poi indubbiamente una persona che vede Michele Morrone, un ragazzo così bello con modelle affascinanti è anche invogliato a prendere parte al progetto, giustamente ma quando ricapita».
Quando hai ricevuto l’offerta da Dolce e Gabbana qual è stato il tuo pensiero?
«Io pensavo fosse uno scherzo perché loro mi hanno contattato via Instagram. Ho iniziato a crederci solo quando ho ricevuto l’e-mail con il brief che spiegava più nel dettaglio il tutto. Ho ricevuto i complimenti da Gabbana e non li ho delusi, c’era una possibilità di deluderli perché per me era la prima volta. Non c’erano precedenti del genere, non avevo mai partecipato a un progetto internazionale. Penso alla fine siano rimasti tutti contenti».
Post-produzione e retouch delle foto, sei pro o contro? Ne fai uso?
«Io cerco di fare una post-produzione molto lieve, cerco di lasciare la foto quanto più reale possibile. Non ho mai avuto l’intenzione di stravolgere i colori o utilizzare filtri e contro filtri per poi dare un’immagine diversa di quella che potresti andare a ritrovare dal vivo».
Ti senti più un fotografo street o un instagrammer?
«Preferirei essere riconosciuto come fotografo perché il social network lo riconduco a chi lavora facendo l’influencer. Io dalle mie foto non ricavo nulla su Instagram mentre una persona che ha i miei stessi numeri ma che spinge prodotti, luoghi da visitare, vuol dire che è un instagrammer. Sfrutta il proprio canale per guadagnare con ogni post cosa che io, a meno che non mi capiti la collaborazione, non faccio. Mi piace l’etichetta di fotografo perché quello che cerco di fare è fotografia».
di Chiara Del Prete
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE
N° 220 – AGOSTO 2021