Michele Anghileri ha ventitré anni e una profonda passione per l’Africa. A ventitré anni sa che la sua strada dista più di settemila chilometri da casa e che il suo futuro, nonostante le incertezze congenite di un’età così giovane, sarà in Malawi, dove lavora già da cinque anni come volontario. Quest’anno purtroppo l’emergenza sanitaria gli ha impedito di volare in Africa e lo ha costretto a restare in provincia di Bergamo, dove attualmente vive. Con il Malawi nel cuore, Anghileri ha però scelto di annientare la distanza e di aiutare a proprio modo, anche da lontano: è nata così la sua iniziativa “Ride for Water”, un viaggio in bicicletta in sette tappe, per un totale di 700 km, con l’obiettivo di raccogliere fondi per la realizzazione di un progetto idrico in Malawi e per la ricostruzione dell’ospedale di Balaka, recentemente distrutto in un incendio. Da Covo (BG) a Roma, Michele ha pedalato per l’Africa.
Com’è nata l’idea di Ride for Water e in cosa consiste?
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«In realtà è nata come nessuno potrebbe aspettarsi, ovvero completamente per caso. Volevo andare a trovare una mia cara amica a Roma e dato che avevo un mesetto libero ho pensato: perché non farla a modo mio e andarci in bicicletta, anziché in treno? Conoscendomi però sapevo che non avrei raggiunto l’obiettivo, non sono un ciclista né uno sportivo e quindi avevo bisogno di trovare uno scopo che mi permettesse di portare a termine l’impresa a tutti i costi, nonostante la fatica, la stanchezza, le difficoltà. Così ho contattato “Pang’ono Pang’ono”, un’associazione di Rosignano Solvay che opera sia in Malawi che in Bangladesh. Io li ho conosciuti in Malawi l’anno scorso perché ho lavorato per un anno nella zona di Balaka e durante gli ultimi due mesi mi sono avvicinato molto a loro, ho seguito la costruzione di un asilo lì e mi è sembrata una buona idea poter fare ancora qualcosa insieme a questo gruppo. Ne abbiamo parlato e abbiamo scelto un piccolo progetto da realizzare in breve tempo e solo tramite pubblicità online: così è saltata fuori la necessità di acquistare una pompa ad immersione che permette di automatizzare la procedura di irrigazione dei campi per la coltura del mais. L’obiettivo erano mille euro e alla fine aver raggiunto i quattromila è stato veramente pazzesco».
Com’è andata la pedalata?
«È successo di tutto: io me l’aspettavo difficile, ma non così tanto. Le prime due tappe, Parma e Bologna sono andate relativamente lisce, ma a Bologna mi hanno rubato la bicicletta, praticamente a dieci metri davanti ai miei occhi e lì ho temuto di dover abbandonare tutto. Fortunatamente per le prime due tappe mi aveva accompagnato mio cugino, che quindi ha deciso di lasciarmi la sua bicicletta e farmi proseguire il viaggio».
Tu hai quindi una grande passione per l’Africa e hai fatto altre esperienze di volontariato…
«Sì, la prima volta in Africa è stata nel 2015, quando ho fatto 18 anni e per i successivi 4 anni sono andato solo durante i tre mesi estivi, perché frequentando la scuola quello era l’unico periodo libero. Poi nel 2018 sono stato per due settimane ad accompagnare un gruppo di ragazzi che volevano provare questa esperienza e al mio ritorno mi sono davvero reso conto che quello che stavo facendo qua non era la mia strada. Studiavo infermieristica, mi mancavano sei esami alla fine, ma ho lasciato l’università e il lavoro che stavo facendo per mantenere gli studi e sono partito per poco più di un anno. Adesso tutto quello che faccio qui a casa, ogni scelta, ogni obiettivo è legato a questo».
Come ti sei avvicinato a questo mondo?
«Quando avevo 12 anni ho incontrato una persona che mi ha parlato del Malawi e da lì subito ho iniziato a chiedere ai miei genitori di farmi andare come regalo per i 18 anni, perché prima sarebbe stato troppo difficile, anche dal punto di vista burocratico. Ho sempre avuto il chiodo fisso dell’Africa, in realtà non giustificato, perché non essendoci mai stato non sapevo cosa mi avrebbe aspettato lì. Ma dopo la prima volta non riesci più a farne a meno e così dal 2015 ad ora è stato un appuntamento fisso, tranne per quest’anno per via del Covid, che mi ha tranciato le gambe dato che dovevo ripartire per tre anni. In compenso quindi la pedalata è stato un modo per sentirmi vicino a quella terra e per aiutare anche da lontano».
di Lucrezia Varrella