informareonline-renatino-spot-parmigiano-reggiano

“Renatino” e il triste caso dello spot di Parmigiano Reggiano

Ciro Giso 06/12/2021
Updated 2021/12/06 at 7:09 PM
6 Minuti per la lettura

Negli ultimi giorni uno spot del Consorzio Parmigiano Reggiano ha sollevato polemiche in tutta Italia per il suo modo di rappresentare i lavoratori. Al centro dell’attenzione un passaggio di 30 secondi ritagliato dal video pubblicitario “Gli amigos” diretto dal regista Paolo Genovese e prodotto da Akita Film.

Il video, lungo 25 minuti, racconta la storia di un gruppo di giovani amici e aspiranti stagisti per lo chef pluristellato Paolo Bottura. Nel corso del loro viaggio lungo l’intera filiera produttiva del formaggio, i ragazzi incontrano Renato, lavoratore di uno stabilimento aziendale.

Renatino, che lavora 365 giorni l’anno senza ferie

«Nel parmigiano reggiano c’è solo latte, sale e caglio – racconta l’attore Stefano Fresi, che interpreta il maestro del gruppo – nel siero ci sono i batteri lattici: l’unico additivo è Renatino, che lavora qui da quando aveva 18 anni, tutti i giorni 365 giorni l’anno»

«Renatino sei un grande, sei il meglio» apprezzano i ragazzi, che destano un dubbio: «Ma è vero che lavori 365 giorni l’anno? E non vai al mare, non hai mai visto Parigi, non sei mai andato a sciare?» chiedono. A queste domande Renato, che nel mentre sta lavorando una primitiva forma di parmigiano, risponde con un secco «no». «E sei felice?» gli chiedono. Renato, sorridendo col suo sguardo stanco, afferma di sì.

La bufera social su Parmigiano Reggiano

Sono diversi gli aspetti critici del cortometraggio. Prima di tutto il modo con cui ci si relaziona con il lavoratore che è chiamato poche volte col suo nome, alla meglio ci si rivolge a lui come “Renatino”, quasi a infantilizzarlo. Scopriamo poi che è lui l’ingrediente segreto del famoso formaggio: non va al mare, non ha mai viaggiato, figuriamoci se va a sciare. Ma questa non è dedizione: privare un lavoratore del suo tempo libero è sfruttamento.

Corre ai ripari l’azienda, che ha disattivato i commenti sui suoi canali social. Ma le critiche sono volate negli spazi virtuali e non solo: c’è chi ha chiesto il ritiro della pubblicità dalla piattaforma streaming RaiPlay: «Rai non assecondi questa rappresentazione, la puntata è gravemente lesiva nella sua sceneggiatura nei confronti della dignità di lavoratori e lavoratrici» avvisa con un comunicato la rivista Aestetica Sovietica. Altri ironizzano: «dove vi nasconderete quando ci sarà la rivoluzione?» e ancora «Renatino, lavori anche nei campi di cotone?» alludendo alle condizioni di schiavitù.

Stefano Fresi, attore nello spot, con un videomessaggio ha provato a rispondere alle critiche: «La pubblicità è un’opera di finzione, tutto questo serve allo sceneggiatore per magnificare il prodotto. – spiega Fresi – Non credo siano stati fatti dei torti ai lavoratori con questo spot pubblicitario» mentre l’azienda, attraverso Carlo Mangini, direttore della comunicazione e marketing del Consorzio, fa sapere che «non abbiamo avuto la sensibilità di capire il messaggio differente con cui è stata letta la passione dei nostri caseari, e raccogliamo tale sensibilità con rispetto. Perciò modificheremo lievemente la pianificazione della campagna» conclude Mangini.

Uno spot che la dice lunga sul mondo del lavoro di oggi

Ma perché uno spot come questo colpisce così tanto? Per quanto il video sia effettivamente un’opera di finzione, sono gli aspetti che rappresenta ad essere surreali. La pubblicità finisce per essere un triste tentativo di normalizzare un fatto distopico: l’uomo vive per lavorare. Ciò che ci distingue da una macchina finisce per essere quel po’ di passione. Così il lavoro diventa un aspetto totalizzante della vita di un uomo, quasi come fosse l’unico suo scopo: una logica che ricorda vecchi motti passati, spazzati via dalla storia.

Che sia stato un errore di comunicazione o una scelta voluta, messaggi come quello dello spot vanno ad inserirsi in un contesto sociale, quello italiano, dove un giovane su 3 è disoccupato, e la disoccupazione generale raggiunge quota 9%: spesso, questo significa che quando c’è bisogno di lavorare per sostenersi si accetta di tutto, arrivando a orari e turni asfissianti, magari sottopagati e perché no, anche a nero. E sono tante le persone che vivono questo tipo di realtà: non sono ai margini, ma parte di un fenomeno sistematico. Perciò c’è da arrabbiarsi davanti a pubblicità del genere.

Si baratta tutto il proprio tempo per denaro, e si annulla l’uomo. Reinterpretare questa realtà sociale con una chiave di lettura positiva riabilita valori sbagliati, che vorrebbero vedere schiavi sorridenti. In questo modo lo spot di Parmigiano Reggiano finisce col diventare un triste elogio allo sfruttamento, una pratica ancora tutta da estirpare.

di Ciro Giso

Condividi questo Articolo
Lascia un Commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *