P come prozac, M come Marco e by come biografia. Phyemby è tutto questo, ma è anche e soprattutto dinamismo ed evoluzione, la stessa che Marco Coviello, designer e fondatore del brand, ha racchiuso attraverso la nuova Capsule Collection, ideata in collaborazione con il graffitista Rediet Longo.
Il fashion che incontra l’arte, lo streetwear che incontra la streetart in una collezione formata da dieci capi no-gender, il cui concept principale è l’inclusione. Non a caso, infatti, uno dei volti di questa capsule è la modella transgender Roberta De Titta Graziano, già volto della cover di settembre dedicata alle donne di Vanity Fair. Abbiamo incontrato il designer di Phyemby, e con lui abbiamo parlato dell’imminente drop della collezione, della storia del brand, che con gli anni è diventata la sua stessa storia.
Come nasce Phyemby, ma soprattutto come nasci tu come designer?
Sono sempre stato un po’ censurato nel raccontare la nascita del brand. Mi è sempre stato consigliato di bypassare determinati aspetti, sia per non urtare la sensibilità di chi avevo di fronte, sia perché questi probabilmente sarebbero stati fraintesi e avrebbero fatto passare messaggi sbagliati. Ad esempio, lo stesso nome del brand, originariamente, doveva significare “la biografia di Marco e il Prozac”. Il progetto di Phyemby, infatti, nasce come un modo per dare sfogo alla mia creatività: non ero minimamente interessato all’inizio all’aspetto commerciale, né credevo d’essere un designer. Tutt’ora non mi ritengo tale. Non essendo mai riuscito ad esprimermi, questo progetto nasce con l’intenzione di raccontarmi: ogni grafica, ogni disegno, ogni slogan contiene un racconto, soprattutto riguardanti la mia infanzia e ciò che ho vissuto. Creare Phyemby, mi ha reso affamato, perché da allora sono sempre alla ricerca di nuove ispirazioni e di nuovi progetti a cui dedicarmi.
Questa è in collaborazione con Rediet Longo è la prima vera collezione di Phyemby…
Esatto, sono passati quasi tre anni dal primo drop. In passato, abbiamo sempre fatto piccoli lanci. Questa con Red (Rediet Longo. ndr), oltre ad essere la prima vera collezione, è il primo lavoro di cui mi sento veramente soddisfatto. I precedenti drop, per quanto validi, sembravano sempre essere troppo scarni. Quando, invece, disegni una vera collezione, strutturata e con un messaggio di fondo importante, le persone ti iniziano a vedere come un vero creativo. Inoltre, averla prodotta, in uno scenario post-pandemico, le da ancora più valore.
Qual è la chiave di lettura di questa capsule collection?
Io e Red abbiamo fuso i nostri background: io con il concetto della stampa, lui con quello dei graffiti. Ogni elemento presente nella collezione racchiude un significato: le stesse linee presenti sui capi rappresentano i capelli ricci dei bambini in Africa. Abbiamo raccontato entrambi la nostra storia attraverso la moda. È una capsule inclusiva, perché no-gender, con capi del tutto privi di una vera e propria stagionalità. Elemento, quest’ultimo, anche legato alla condizione di isolamento da quarantena, che ha costretto in casa tutti indistintamente.
Peraltro, uno dei primi drop di Phyemby è stato caratterizzato dalle stampe…
Esatto, qualche anno fa, ovunque ti girassi, brand di ogni tipo, da quelli low cost a quelli di lusso, avevano lanciato capsule e collezioni con le facce di rockstar e icone della musica e del cinema. Sarebbe stato scontato replicare questo trend, ed è per questo che decidemmo di sostituire i volti di persone famose a quelli dei modelli che avevano posato per i nostri shooting. I protagonisti delle grafiche di Phyemby eravamo noi stessi. Io dico sempre che, quando verrà rilasciata una collezione ufficiale, la chiamerò 1994: la mia data di nascita rappresenterà l’anno zero di Phyemby.
Quindi la moda è diventata con il tempo il tuo contenitore personale, dove conservare la tua infanzia e tutte quelle che sono poi state le tue ispirazioni ed esperienza di vita.
Si, esatto. Da piccolo, ricordo di non aver mai avuto il coraggio di rileggere i temi che scrivevo, proprio perché avrebbe significato guardarmi dentro. E io avevo paura che quello che avrei visto non mi sarebbe piaciuto, che mi avrebbe fatto schifo. Con Phyemby ho avuto la possibilità di riversare all’esterno tutto quello che avevo dentro. Non che, oggi, quando riguardo le mie collezioni mi piacciano, però…
Facciamo un passo indietro. Cosa c’è della tua infanzia nella collezioni di Phyemby?
La mia è stata un’infanzia particolare, il che è sempre un modo per gli artisti per fare hype. A me non va di fare questo, non mi va di dire quanto sia stata dura, per essere compatito. Ho vissuto, sicuramente, un’infanzia poco spensierata, caratterizzata da un rapporto complesso con gli stessi membri della mia famiglia. Poi, c’è stata la perdita di mia madre, di cui non sto qui a raccontare le conseguenze e gli strascichi.
Ti reputi una persona “che ce l’ha fatta”?
Ho avuto la mia forma di riscatto sociale, si. L’idea di interfacciarmi ed essere stimato da persone che sono veramente qualcuno è un gran traguardo, considerando che partito disegnando una t-shirt. Oggi, sedermi al tavolo con quelli che sono realmente dei designer, mi gratifica non poco. Quello che mi fa sorridere, inoltre, è il fatto di avere background accademico che non ha nulla a che fare con la moda e con il design, anche perché sono studi di cui non ho mai avuto una grande considerazione. Ecco perché, ho fatto mia la frase di Gordon Gekko: “I più di questi laureati di Harvard non valgono un cazzo. Serve gente povera, furba e affamata, senza sentimenti”. Questo a voler dire che, le competenze servono, ma io ho sempre preferito essere scaltro.

Per quanto riguarda la comunicazione, qual è stato il ruolo dei social nella tua carriera e soprattutto, quanto hanno inciso?
Ora i social sono tutto. Ora quello che fa la differenza tra un designer e l’altro è il modo in cui vengono comunicate le cose. Mi capita, spesso, di dovermi confrontare con imprenditori che sono in questo settore praticamente da sempre, che hanno visto in toto l’evoluzione del fashion system. Quando sono davanti a loro, mi capita di sentirmi in imbarazzo, perché sento che la mia presunzione di essere innovativo possa non essere presa sul serio da loro. Poi mi rendo conto che, al netto del fatto che viviamo in un momento storico saturato da designer e creativi, quello che può fare la differenza è lo storytelling, il modo che ho io per raccontarti la mia storia e il mio concept.
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Chi è oggi la tua ispirazione?
Se ti rispondo “io” sembro troppo presuntuoso? (ride. ndr). Stai parlando con uno che ha reso la sua faccia un merchandising. Non avevo idee per un drop e, in collaborazione con il mio grafico, decisi di utilizzare la mia faccia come stampa. Hai presente quando stai giocando a poker e punti tutto? Ecco, ora quel capo con la mia faccia lo indossa il rapper più forte degli Usa.
di Carmelina D’aniello