Uscirà il prossimo 9 marzo il nuovo romanzo di Osvaldo Frasari, “La parola nota a tutti gli uomini”, pubblicato da Spring Edizioni. Il titolo, dal contenuto piuttosto misterioso, incuriosisce e coinvolge il lettore, spinto a scoprire quale sia la famosa “parola nota” a tutti. Abbiamo posto alcune domande al giovane scrittore casertano, a pochi giorni dall’uscita del testo.
Il titolo del romanzo è in realtà una negazione del suo stesso significato?
«È, precisamente, la trasformazione in forma dichiarativa di un’espressione che ricorre nel capolavoro di Joyce, l’Ulisse, in forma interrogativa, ovvero: qual è la parola nota a tutti gli uomini? Come rispondere a questa domanda? Impossibile. Ma del quesito ho colto tutto ciò che gravita intorno ad una possibile risposta, e per non cadere nell’errore di inventare altre gabbie linguistiche con le quali imporre a un lettore disarmato lo stigma di una parola, una soltanto, ineluttabile nella sua pretesa di significare, inflessibile come un chiodo piazzato in mezzo agli occhi, ho preferito, invece, sfidarne molte di più. Fare a pugni con le ipotesi, mettendo in dubbio ogni cosa.
Sono nato il 16 giugno del 1987, lo stesso giorno in cui è ambientato l’Ulisse di Joyce e quando mi sono ritrovato a scrivere questa lettera ho accolto questo sottile suggerimento del destino eleggendo a unico destinatario possibile questa stessa parola, poiché ho scritto tutto al solo scopo di cercare me stesso attraverso di essa. Il titolo del romanzo allude a quella domanda, e, forse, è nella frase originaria che va individuata una sorta di negazione. Che senso ha chiedersi quale sia la parola nota a tutti gli uomini, se, appunto, è nota? In questo caso la domanda andrebbe posta ovviamente a Joyce, e non è del tutto scontato che, in qualche modo, attraverso l’infinito groviglio di dedali di cui è composta la sua scrittura, egli non possa risponderci. La ricerca, infatti, prosegue, e il dibattito sull’entità/identità della parola è tuttora irrisolto».
Perché questa scelta?
«Potrei dire che, in un certo senso, sia stato il titolo a scegliere me. Il quesito joyceiano tormentava la mia testa con tutto il suo peso esistenziale, con tutta la sua sconfinata pretesa di aggirare i confini dello spazio e piegare i cardini del tempo, ma in qualche modo ho sentito l’urgenza di imbrigliare qualcosa che dovesse fare i conti con quella domanda, con quella materia misteriosa che tutti noi abbiamo dentro e con la quale siamo in relazione continua, ora in modo conflittuale, con paura, ora con armonia o addirittura entusiasmo. Per cui non ho voluto, ammesso mi fosse stato realmente possibile, rinunciare a questa occasione di ricerca profonda. Come strumenti a vantaggio dell’impresa, ho potuto disporre di queste due cose: la scrittura e il tempo; per una servirebbe un’abilità che ancora inseguo, un talento che mi sforzo di costruire ogni giorno – conscio anche che sentirsi davvero pronti è puntualmente impossibile – valga, per cui, questo romanzo in forma di lunga lettera come tentativo che, se in parte impreciso, è nel suo complesso sicuramente onesto. E per l’altra, il tempo, che ho pensato di estendere almeno ad una vita: la mia (nella forma e nel concetto della narrazione). La scelta implica due ambiti falsamente separati: uno ha a che fare strettamente con me, l’altro mira verso l’esterno, abbraccia il tutto. Ma ecco, questo titolo è come una porta che può essere spinta e tirata allo stesso tempo. Per andare dove? Per uscire dal passato, entrare nel futuro, per uscire dal dolore, entrare nella gioia… Tutto è possibile se solo avessimo consapevolezza della nostra posizione».
Cosa ti preme sottolineare attraverso il testo?
«Questo: che vi sono elementi narrativi fortemente ispirati a fatti, storie, situazioni che ho vissuto in prima persona. Che una buona parte del romanzo parla di me, quindi che una buona parte del romanzo parla di te. Si può sottolineare l’umanità? Altre due cose: l’importanza di stabilire un contatto con se stessi, la difficoltà di costruire relazioni e rapporti con gli altri, adesso, in questo nostro tempo fluido davvero!
Attraverso questo libro ho forse messo in risalto con particolare attenzione i segni di questa crisi emozionale e sentimentale. Ho avuto l’impressione, scrivendo, di poter riunire questi punti tracciando una lunga, preoccupante, linea di demarcazione sul foglio della coscienza sociale. Ne viene fuori una forma frastagliata, una frattura. L’oscillazione non è dolce. Il tratto, innaturale. Ad esempio una linea, all’apparenza decisa e fiera, corre verso una direzione ben precisa, forte della sua convinzione. Chiamiamola pure “coppia fissa”, o “fidanzamento”, o ancora “matrimonio”, e con la stessa rigidità e lo stesso slancio l’altra subito corre verso un’altra direzione, all’apparenza più appetibile, ideale, adeguata alle nostre nuove convinzioni. potremmo definirla “coppia aperta”, o “frequentazione”, o anche “convivenza”, e poi molte altre linee ancora e molte altre definizioni; tutte potenzialmente vincenti, tutte, allo stesso modo, in declino verso il fallimento. Il segno zigzagato di questa frattura è l’immagine di una precarietà sentimentale, la traccia più evidente di una ferita che resta aperta, scoperta e talmente abituata a questo continuo dilacerarsi, da perdere quasi del tutto la sensibilità, fino a non sentire più nulla».
Se dovessi scegliere una parola che rispecchia una realtà a te particolarmente familiare, “nota” appunto, quale sceglieresti?
«Famiglia. Nell’etimo riconducibile al termine casa, che è forse, con molteplici modalità, il luogo ricercato da tutti. Famiglia è un’altra parola che in molti diamo per scontata, non lo è».
Qual è la cosa che gli uomini hanno la presunzione di conoscere ma in realtà ignorano totalmente secondo te?
«La cosa su cui tutti si sono espressi, anche le pietre, e su cui tutti si sono sbagliati, anche le montagne, è l’amore».
Scrivere questo romanzo è stato faticoso?
«La prova più faticosa che abbia mai sostenuto fino a questo momento. Per me la scrittura è sempre stata un esercizio giornaliero teso a un coinvolgimento totale; non sono mai stato a riparo da essa né grazie ad essa. In questo lavoro ho scavato profondamente, in certi punti a mani nude, con grande dolore».
Che sensazioni hai provato?
«Davvero tante. Provo a disegnarne qualcuna con le parole, tutte imprecise: paura, gioia, ansia, entusiasmo, nostalgia, speranza, tenerezza, sgomento, delusione, vergogna, stizza, accoramento, contentezza, dolore, meraviglia. Forse questo più di tutto. Forse perché sono ritornato anche un po’ bambino in certi passi e ho ricordato il senso dello stupore; quella conquista speciale del mondo. Meraviglia, senza alcun dubbio».
di Teresa Lanna