L’uso della storia per le mafie: gli altarini

Antonio Casaccio 08/06/2023
Updated 2023/06/09 at 7:38 PM
7 Minuti per la lettura

È vero: se oggi pensiamo alla mafia dobbiamo tenerci ben distanti dal mafioso con la coppola e la lupara, ma ciò non significa che tutto ciò che riguardi la tradizione mafiosa sia andato perduto. Oggi i proventi mafiosi sono parte integrante del tessuto economico, sintomo di un’impresa che ha assottigliato sempre di più le distanze con le aziende pulite. Si tratta di un potere mafioso tecnico e altamente specializzato, ma sempre alimentato da una base che ha fede nella vecchia subcultura mafiosa.

L’intercettazione di finanziamenti pubblici, l’immissione di capitali sporchi nelle reti di imprese (ad esempio i consorzi) e il condizionamento degli appalti pubblici non sono gli unici affari, ma come ben sappiamo i vertici tengono unite le “file basse” dei clan soprattutto attraverso lo spaccio, il racket e l’usura. Si tratta dei metodi di business storici che permettono di sostenere la base, ampliandola e soddisfarla economicamente per gli obblighi violenti a cui devono assolvere. Accanto al compenso economico, i vertici continuano a diffondere nella base il rimando a tradizione eroiche e culturali, oltre che a valori morali che ispirano perfino le giovani leve dei clan.

LA STORIA

Dai riti di iniziazione della ‘ndrangheta (ancora oggi praticati) al rito del Palillo della Nco, nella storia delle mafie abbonda la ricorrenza ad elementi culturali capaci di creare unione tra gli affiliati. Potremmo definirlo una specie di “marketing tribale“, dove riti e precetti servono a costruire una tribù in cui si condividono valori e morali. Lo stesso Raffaele Cutolo ha costruito la sua Nco sulla scorta dei valori della garduna, un’organizzazione malavitosa spagnola del XVII secolo (molto probabilmente mai esistita), che ha trovato ampio successo tra i romanzieri iberici. Il momento d’iniziazione dell’affiliato per la Nco consisteva nel “rituale del Palillo“, arricchito da canti e melodie popolari, oltre che a un monologo che sprigiona i valori morali per cui si batte la camorra: “Omertà bella come m’insegnasti, pieno di rose e fiori mi copristi” oppure “Il giorno in cui la gente della Campania capirà che vale più un tozzo di pane libero che una bistecca da schiavo, quel giorno la Campania ha vinto veramente.

Noi siamo i cavalieri della camorra, siamo signori del bene, della pace e dell’umiltà, ma anche padroni della vita e della morte. La legge della camorra a volte è spietata, ma non ti tradisce”. Alla fame di soldi e potere, quindi, Cutolo aggiungeva una tensione morale che avrebbe rafforzato la fede nel clan e tra gli affiliati. Una gamma di valori che proviene da una lettura storica spesso sbagliata, piegata a propria convenienza come per il rimando alla garduna, un gruppo frutto della fantasia di romanzieri spagnoli ma mai esistita realmente. Influenze spagnole a cui si rifà anche la leggenda mitica della nascita della ‘ndrangheta, con il riferimento ai tre cavalieri iberici Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che per vendicare l’onore della sorella commetteranno un omicidio che li condannerà a quasi trent’anni di carcere. Grazie all’uso strumentale della storia, spesso persino irreale, i clan hanno fatto veicolare i “valori” fondanti delle mafie.

MA OGGI?

Come l’era social ha condizionato l’utilizzo strumentale della storia da parte delle organizzazioni criminali? Nel mondo in cui chi fa panini con gli affettati e chi mette il vetro protettivo allo smartphone diventa un fenomeno nazionale, il fascino dell’uomo che vive con spensieratezza una realtà prossima allo spettatore vince su tutto. I social prediligono la presa diretta e così la spontaneità delle persone viene premiata, soprattutto quando si mostra una realtà senza filtri. Così le famiglie mafiose trovano su TikTok un canale unico per diffondere il vissuto quotidiano di affiliati immersi nel lusso, con l’apparente potere di far ciò che si vuole quando si vuole, circondati da mobili placcati in oro. Si tratta di video che hanno un ampio riscontro e che vanno a celebrale l’affiliato, i sacrifici fatti e lo status raggiunto partendo da zero. Oggi il centro non è più il superboss, il Totò Riina, il Cutolo o lo Schiavone di turno; ad essere celebrato è l’affiliato comune. Sono loro le star di una propaganda mafiosa che non si concentra solo sul social.

GLI ALTARINI

Le celebrazioni mafiose stanno sempre più trovando spazio tra le strade di Napoli, se n’è accorto il Comune che nel corso degli anni ha provveduto a cementare gli altarini che ricordavano e inneggiavano le gesta degli affiliati. Ecco l’uso pubblico della storia su cui si concentrano le associazioni mafiose: diffondere la storia dei martiri ingiustamente uccisi, ma che hanno portato avanti con coraggio la scelta della vita ‘miezz ‘a via. In giro per Napoli di altarini ce ne sono tanti, soprattutto nell’area di Ponticelli e nel rione Conocal, ma se si fa ben attenzione non si tratta degli unici rimandi criminali per le strade cittadine. Spesso possiamo ritrovare esempi di street art dedicata ad affiliati o piccoli boss emergenti che inneggiano il loro martirio.

Per la cronaca comune si tratta di camorristi che hanno vissuto le trame criminali spargendo sangue e violenza, sopraffacendo i più deboli e distruggendo la città di Napoli, ma per i clan la loro storia è utile a creare miti provenienti dalla base, che con il sacrificio hanno pagato l’onere di una società ingiusta. Per loro si tratta di compagni di strada che dai rioni più malfamati hanno trovato soldi e fama, tutto grazie al coraggio con cui hanno deciso di spendersi per il clan. La mafia usa la storia, la piega a proprio vantaggio per rafforzare i legami e oggi ciò avviene maggiormente su esponenti legati alla base, quelli che una volta erano definiti i “pesci piccoli”, ma che oggi sono portatori di valori capaci di ispirare le giovani leve. Per arrivare a queste conclusioni non basta far altro che guardare con attenzione la nostra città.

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