Luca Sorbo è un fotografo e professore di Archiviazione e Conservazione della Fotografia e di Storia della Fotografia. Ha iniziato il suo percorso da fotoamatore, dato che proveniva da studi di economia e commercio, e iniziò a collaborare con un’agenzia foto giornalistica la Graffiti di Roma dal 1994 al 1999 e pubblicò anche un libro sui campi profughi palestinesi in Libano che è stato pubblicato dall’università “L’Orientale” con il titolo “Sguardi di pace, segni di guerra”. Ha lavorato come fotografo di scena nei teatri di avanguardia di Napoli, ma anche nella pubblicità e nella moda. Successivamente si specializza in conservazione e restauro della fotografia presso l’Opificio delle pietre dure di Firenze, e precedentemente nel 94′ aveva fatto esperienza in questo settore presso il CRAF di Spilimbergo. Nel 94’ conobbe Henri Cartier Bresson che gli fece conoscere il mondo degli archivi fotografici, per poter conservare in maniera corretta le foto. L’archiviazione e conservazione della fotografia è la materia che insegna all’Accademia di Belle Arti di Napoli, ebbe la prima cattedra di questa materia nel 2007, quando è stato fondato il Biennio Specialistico di Fotografia, la prima in Italia insieme a Brera e Catania. Nel 2015 ha realizzato la ricerca fotografica sulla Napoli anni 30′ per il volume edito da Skira per un testo di Maurizio de Giovanni. Dal 2006 collabora con la scuola di cinema e fotografia Pigrecoemme, dove tiene corsi di cultura fotografica.
Com’è strutturato un archivio fotografico?
«Può essere strutturato in qualunque modo, l’archivio come modello dovrebbe essere strutturato con delle catalogazioni, a Napoli non c’è nessun archivio strutturato in questo modo, quindi ci confrontiamo con gli archivi di istituzione, come quello del Museo Archeologico o al Museo di San Martino. Sono strutturati come l’istituzione pensava che la fotografia fosse utile per essa, il Museo Archeologico usava la fotografia come documentazione delle opere archeologiche dell’800′ che sono stati i primi soggetti fotografati, proprio perché erano quelli più compatibili con la tecnica, che richiedevano lunghe pose, perciò il monumento era facilmente documentabile anche con le primissime tecniche fotografiche, già a metà 800′ abbiamo tantissime foto. Il materiale fotografico archeologico è conservato come documentazione dell’opera e non come fotografia. Oppure abbiamo gli archivi privati, come quello Troncone, Parisio e Carbone, che sono organizzati come il fotografo pensava fosse utile per la propria attività personale, conservavano le opere fotografiche nel modo migliore, ma non come dovevano essere».
Com’è la situazione attuale degli archivi fotografici napoletani?
«È messa piuttosto male. I musei anche se non hanno gli archivi organizzati nella maniera prescritte dalle normative, sono conservati abbastanza bene. Poi ci sono gli archivi privati dei fotografi, che sono conservati peggio. Noi abbiamo tantissimi archivi, che sono in grandissima difficoltà. La gestione degli archivi è molto costosa, non c’è una redditività, se per esempio un archivio ha 1.000.000 di opere fotografiche, bisogna schedarle e conservarle, il costo del tutto sarebbe troppo oneroso, che la vendita delle foto non riuscirebbe a sopperire a questa spesa. Gli archivi napoletani essendo in difficoltà stanno facendo un intervento di crowdfunding, dato che c’è il rischio che vadano dispersi. Ci sono molti archivi che noi non conosciamo, tanti fotogiornalisti che hanno lavorato dagli inizi del secolo ai giorni nostri, ricordiamo i fotografi anni 50′ e 60′ come Carruba. L’archivio di Carruba, fotografo napoletano è conservato all’istituto Luce. Quello di Nicola Sansone è conservato a Parma, sono tutti fotografi napoletani che noi non conosciamo. L’archivio è la memoria della città ma anche il modo in cui un autore ha espresso se stesso».
Com’è nata la tua collaborazione con l’autore Maurizio de Giovanni?
«La collaborazione con de Giovanni è nata attraverso la casa editrice Skira che ha pensato di realizzare un libro provando a ricostruire la Napoli del commissario Ricciardi risalente al periodo che va dal 1930-1932. Indra Romano figlia dell’ambasciatore Romano mi ha contattato e ci siamo incontrati più volte al caffè Gambrinus per parlare del libro e ricostruire la città di quell’epoca. Prima di tutto mi sono avvalso del consulto degli archivi di quegli anni che sono quelli di Troncone e Carbone. Mi sono trovato in difficoltà nella realizzazione di questo volume, perché non doveva esserci niente di riconducibile a un periodo successivo al 1932. L’architettura fascista napoletana è risalente dal 1936-1938. Maurizio teneva che fosse raccontata molto la vita popolare, nel fascismo non si rappresentava la vita popolare, non esistono per esempio foto di cronaca nera che per Ricciardi era importante, lui si occupava di delitti. Fortunatamente i fratelli Troncone quando avevano tempo libero facevano ricerca sociale andando a fotografare la quotidianità di Napoli nei vicoli come i quartieri spagnoli ecc. Dato che a de Giovanni interessava la quotidianità di quest’epoca, ho ricercato questa tipologia di foto. Per ricercare questo materiale fotografico ho impiegato un anno ricercando anche in archivi privati, noi non abbiamo la certezza di quante foto ci siano di quel periodo anche perché non c’è un censimento fotografico. Il materiale è stato visionato da una collaboratrice di de Giovanni, Stefania Negro che collabora da tempo con lui e gli da informazioni sull’epoca fascista».
Che cos’è per te la fotografia?
«La fotografia è tante cose, ma nel caso degli archivi è testimonianza. Racconta tante cose e nasconde tante altre. La fotografia è bugiarda e ambigua, ti può mostrare tutto quello che non c’è nella fotografia, per questo dobbiamo saperla leggere».
Che cos’è la memoria nella fotografia?
«La fotografia è contingenza, se io ti faccio una fotografia io racconto quello che sei ora, se ti faccio un quadro racconto tutto quello che sei per sempre, il linguaggio pittorico è un linguaggio sintetico, la fotografia è un linguaggio analitico. La fotografia è una memoria ingannevole. Il documento fotografico nella sua semplicità prevede una cultura visiva».
…Ci racconti un tuo sogno?
«Un sogno prevalentemente sugli archivi, il progetto di documentazione che sto realizzando, è anche di creare dei nuovi archivi fotografici, dato che i professionisti di un tempo si dedicavano a fotografare la città, e adesso hanno difficoltà a farlo, quindi la documentazione che abbiamo di Napoli dal 2000 al 2018 è pochissima, nonostante si pensi che in Italia si fotografi di più, mentre non è così. Costituendo questi gruppi di lavoro, equivale a fare nuovi archivi fotografici. Questi progetti di documentazione e consapevolezza del territorio, passano anche dalla conoscenza degli archivi e dal timore che non ci sia qualcosa che documenti la città oggi. Un archivio non è solo un posto dove trovare materiale fotografico ma uno stimolo a ri fotografare, per vedere com’è la società oggi. Di questi progetti faremo mostra e un catalogo».
Cosa possiamo fare per salvare gli archivi fotografici?
«La cosa più importante è la consapevolezza dell’esistenza degli archivi. Bisogna pensare che negli archivi c’è la memoria, anche se questa un po’ ambigua e da interpretare, però possiede dei documenti importantissimi, di com’è cambiata la città. L’archivio è un bene culturale, quindi ci deve essere l’intervento dello Stato, perché questi non hanno la capacità di autofinanziarsi. Chi è proprietario di questi deve capire che magari si deve donare allo Stato o venderlo a prezzi ragionevoli. Ci deve essere una consapevolezza comune dell’importanza degli archivi l’intervento del pubblico, tutte le istituzioni devono preservare i propri archivi e quelli degli altri, unire le proprie forze e fare un programma a lungo termine, un progetto che richiede tra i 5 e i 10 anni, con mezzi importanti. L’Accademia di Belle Arti, dovrebbe essere in primo piano, tanti studenti potrebbero fare degli stage all’interno degli archivi, andare alla ricerca di questo materiale. La fotografia è sempre imprevedibile».
Tratto da Informare n° 179 Marzo 2018