Spesso inizia con una necessità economica. Per colmarla, molti studenti pensano di spendere quello spazio nel calendario liberato dalla fine della scuola. Ma poi la buona volontà inciampa nella scusa, la solita, di dover fare la “gavetta”. E allora inizia la sofferenza dello sfruttamento: orari lavorativi disumani, troppe mansioni, paghe misere. Potremmo riassumere così l’esperienza dei tanti lavoratori stagionali che quest’Estate si sono rimboccati le maniche per prendere posto come camerieri, animatori, cuochi, bagnini e tante altre figure del settore turistico e alberghiero, i due più travolti dai flussi economici del periodo estivo. Ma non illudetevi: la macchina dello sfruttamento non si ferma mai, e con la fine del periodo estivo gli abusi si sposteranno su altri campi, in altri ambiti, ma continueranno.
Gavetta. La pratica, ormai diffusa, di dover lavorare a poco prezzo, o peggio ancora gratuitamente, per fare esperienza in un certo ambito professionale. In quanti abbiamo fatto o stiamo facendo ancora gavetta? I numeri, stavolta, non sono chiari. Sono chiare invece le esperienze dei giovani che mettono piede sul posto di lavoro. Molto spesso gli annunci non sono trasparenti: quasi mai parlano della paga, e poco accennano alle mansioni da svolgere. Basta fare un giro nei tantissimi gruppi di Facebook frequentati ogni giorno da migliaia di utenti per scoprire che non sono casi isolati ma una tendenza sistematica di chi cerca lavoratori. Una volta al telefono, oppure in sede, salta fuori la verità su quei dati che, casualmente, mancavano.
E il giorno di riposo? Se lo chiedi ti rideranno dietro. È quello che è successo a Veronica (nome di fantasia) che ha chiesto ad un villaggio turistico in provincia di Salerno maggiori chiarimenti sul suo contratto: «Ho chiamato e non danno giorno di riposo, ho chiesto il perché e ho sentito voci sotto che se la ridevano… il tutto neanche per mille euro al mese!».
Sfruttamento: i dati da incubo del lavoro stagionale
Quest’Estate i nuovi assunti nel solo settore del turismo sono stati 353mila secondo le stime del centro studi Fipe-Confcommercio. 164mila solo a Giugno, in aumento rispetto ai numeri degli scorsi anni. Delle centinaia di migliaia di persone assunte, solo il 9% avrà un contratto indeterminato. Il 77% invece avrà un contratto a tempo determinato. La restante percentuale mantiene altri contratti a tempo o di apprendistato.
Eppure, nella precarietà, c’è la chiarezza di un inquadramento legale. Perché sono questi i dati ufficiali, ma la verità è sommersa come quell’economia che vive a nero e abbiamo ogni giorno sotto i nostri occhi. Di quel mondo arrivano le testimonianze, le loro esperienze lavorative che – però – non sono per niente formative. Mi è bastato entrare in qualche bar del centro di Napoli e chiedere ai baristi – tra una pausa caffè per me e una pausa sigaretta per loro – quali fossero le condizioni di lavoro. Le risate, disperate, le ho ricevute anche io: come risposta alla domanda “Ti hanno mai fatto un contratto?”.
Siamo ben distanti dalle famose otto ore di lavoro. Spesso chi lavora a nero ne fa molte di più, e capita che anche chi abbia un contratto si ritrovi a passarne più del dovuto a lavorare. “Cerchiamo un aiuto cuoco” propongono alcune attività di ristorazione nel centro storico napoletano. Ci vado con la curiosità di vedere la realtà della cucina, e conoscere chi ci lavora da sicuramente più tempo. «Ci servirà anche aiuto alla cassa, nel frattempo ricorda il timer mentre friggi le patatine. Non abbiamo camerieri: aiutaci un po’ tu a portare i vassoi ai tavoli, ti alterni con l’altro ragazzo». Sono entrato lì sapendo che l’annuncio offriva mille euro: ogni mezz’ora passata col titolare, la paga diminuiva di 100. L’altro lavoratore mi rivela il suo mensile: 400 euro. «E forse mi farà il contratto».
Il reddito di cittadinanza fa ancora paura
Lo abbiamo sentito in televisione, ed è tutt’oggi nelle voci dei titolari a cui abbiamo chiesto il motivo per cui, secondo loro, è più difficile trovare lavoratori, nonostante l’aumento statistico di assunzioni. «I giovani non vogliono più lavorare» è un sempreverde che però nasce in tempi antichi. Invece ora a far da padrone nella narrativa dell’identikit dello sfruttatori c’è un nuovo nemico del lavoro, il “reddito di cittadinanza”. La misura di welfare che finirà nel 2024 e negli anni ha aiutato tante persone con una somma di denaro (variabile in base al reddito e i componenti del nucleo familiare). «Ci ha risollevato» è il coro di tante famiglie che ne fanno uso, con il loro augurio costante di trovare un lavoro che dia una stabilità economica che parte da loro.
Scansafatiche? La verità sul motivo della carenza dei lavoratori sembra un’altra: il reddito di cittadinanza ha permesso a tanti di potersi rifiutare a certe condizioni di lavoro. Viene vista dai più come una vera e propria fortuna, quella di non doversi accontentare di lavori miseri grazie ad un sostegno economico che permette, almeno, di galleggiare. E sperare in un lavoro dignitoso e giusto per il futuro. «Io posso permettermi di non lavorare a questo prezzo» mi spiega Laura: «Quindi provo a scontrarmi con i miei superiori, per chiedere di essere trattata meglio. Non tutti possono permetterselo, ma spero che gli altri lavoratori possano reagire, perché credo che solo così si possa avere un effetto concreto».