Il pregiudizio si basa in parte sul fatto di giudicare le azioni degli altri attraverso il senso che la nostra cultura attribuisce a quell’azione. Gli antropologi lo chiamano etnocentrismo. Ma cosa succede quando l’etnocentrismo entra nei banchi di scuola, nei rapporti con gli altri, nei giudizi che i nostri insegnanti e i nostri amici ci attribuiscono?
Alin Poloboc è un ragazzo di ventun’anni italo-rumeno. Ha deciso di raccontarsi alla nostra redazione nella sua vita, nel suo percorso e nel suo approccio alla scuola. In un’Italia che è sempre più pregna di pregiudizi razziali, soprattutto nei confronti della comunità rumena, diventa fondamentale imparare a riconoscere e valorizzare le differenze: altrimenti c’è l’oblio identitario.
Raccontami un po’ di te, dove sei nato, come sei cresciuto, in che modo le radici della tua famiglia hanno influito sulla tua educazione
«Io sono nato in Romania, in un paese vicino a Iași. Sono venuto in Italia molto presto e qui ho passato gran parte della mia vita. Io e mia madre abbiamo seguito mio padre che è stato il primo a trasferirsi. Ho vissuto per i primi tempi a Roma e poi ci siamo trasferiti in Abruzzo. Non ho mai sentito forti differenze linguistiche dato che sono cresciuto qui. In ogni caso parlo perfettamente italiano e rumeno, che è la lingua che uso per comunicare con i miei parenti.
Dal punto di vista educativo e formativo le differenze sono molte. In casa mia si ricorreva spesso alla violenza e ai metodi punitivi, non venivo accontentato facilmente. Questo mi ha permesso di crescere non viziato, di comprendere il valore delle cose e della disponibilità economica in famiglia. Ha avuto i suoi effetti e anche se è stata dura non la rinnego.
Non ho mai parlato con gli altri della mia situazione a casa, anche se molti compagni mi raccontavano di aver vissuto delle esperienze simili o di essere cresciuti allo stesso modo. In generale però i ragazzi italiani vivevano una situazione più serena. Per fare i compiti avevano la scrivania, la pausa merenda. Io i compiti li facevo steso a letto, se li facevo. La scuola è stata un argomento difficile per me. Mia madre non sapeva bene la lingua, mio padre non c’era quasi mai, le difficoltà erano all’ordine del giorno. Ero anche un po’ irrequieto e le mie origini non mi facevano vedere molto di buon occhio da parte dei professori.
La mia famiglia mi spronava molto a proseguire gli studi, soprattutto i miei nonni. Non l’ho fatto perché durante il mio percorso scolastico mi sono reso conto che non era la mia strada. Il diploma era già un progresso per la mia famiglia, ma anche per me: sono stato bocciato due volte per cattiva condotta».
Come mai queste bocciature?
«Mi era passata la voglia di studiare. Fino a 18 anni l’avevo ma già intorno ai 19-20 è stato difficile. In questo sono stato sicuramente influenzato dalla cultura rumena. Lì i giovani lasciano casa presto, anche io sentivo la necessità di andarmene di casa».
Perché secondo te le persone lasciano la Romania?
«Dopo la morte del nostro dittatore comunista Ceaușescu, giustiziato nel 1989, è iniziata una vera e propria diaspora del popolo rumeno, ci siamo divisi in tutta Europa».
Come vivevi queste differenze da bambino?
«Da bambino sono stato dallo psicologo. Mi sentivo costantemente preso di mira e ricorrevo spesso alla violenza perché non sapevo come gestire la situazione. Mi chiedevo: perché il problema devo essere io? Perché vivo in questo pregiudizio?
In realtà poi mi sono reso conto che l’atteggiamento di pregiudizio è diretta conseguenza degli atteggiamenti che le persone vedono in noi. E’ a partire da noi che risiede l’azione del cambiamento. Da me era previsto che non reagissi alle provocazioni con la violenza, che non mi facessi sentire, che diventassi quasi invisibile.
Dopo qualche seduta i professori e i dirigenti scolastici hanno notato dei miglioramenti in me, probabilmente non era neanche vero. Ciò però mi dava un rinforzo positivo, ho iniziato ad avere più fiducia in me».
Quali sono secondo te i pregiudizi maggiori legati ai rumeni?
«Sempre gli stessi: i rumeni rubano. Ma come tutti del resto, esistono nazioni in cui non ci sono ladri?».
Qual è la differenza tra i rom e i rumeni?
«I primi sono un’etnia, hanno una cultura e delle tradizioni. I secondi invece hanno una nazionalità, un paese d’origine. Spesso le due identità culturali sono accomunate perché la grande presenza dei rom in Romania tende a far accomunare le due culture».
Tu che hai conosciuto entrambe, qual è la visione del furto nella cultura rom e in quella rumena?
«Dipende, come tante cose, dall’educazione della tua famiglia. Il furto può nascere sia per bisogno che per divertimento. Anche io sono uscito per un periodo con le persone sbagliate e sono andato fuori strada.
Il furto, non solo nella cultura rom, diventa un mezzo di vanto, di popolarità tra ragazzi. Del resto, anche a Milano se ne sentono di tutti i colori con la questione delle babygang».
E poi?
«Poi cresci e capisci che non è la tua strada. Capisci che è il momento di crescere, di vivere liberi dalla paura di rovinare il proprio futuro o di rischiare qualcosa di più che una ramanzina in pubblico. Mi sono spesso chiesto: cosa penserebbero mia madre e mia nonna di me se mi vedessero fare questo per vivere?».
Pensi che i pregiudizi siano aumentati con il fenomeno mediatico “attenzione pickpockets”?
«Sicuramente. Ma è pur vero che quella tipologia di rom ruba per mestiere, vengono iniziati a quello sin da piccoli. Gli zingari hanno una cultura differente dalla nostra, sia rumena che italiana, sono un’etnia a se’ appunto. Spesso non vogliono che i loro figli si istruiscano troppo, non lo reputano importante. Ciò che conta è portare i soldi a casa, a prescindere da come. Ecco perché spesso si ricorre all’illecito, dove si va avanti seguendo una gerarchia sociale dove vige la legge del più forte. La legge degli zingari è quella della vita concreta, delle scorciatoie, delle vie traverse per raggiungere un obiettivo».
Rinneghi questa cultura?
«No, mai. Non ho mai pensato di allontanarmene. Anche loro sono parte della mia identità, cerco di non perdere i rapporti con gli amici rom pur restando nella legalità».
Ti senti più rumeno o più italiano?
«Sento di appartenere di più al posto in cui sono cresciuto, quindi a Pescara e alla comunità rumena che vive qui. Devo la mia vita all’Italia, del resto la Romania non mi ha offerto niente, nonostante sia il mio paese e ne porti avanti le tradizioni».
Pensi che in altre parti d’Europa la concezione dei rumeni sia la stessa?
«Assolutamente no. Le differenze sono molto significative tra i vari paesi. Per un anno con la mia famiglia ci siamo trasferiti in Danimarca (motivazione per un ho perso un anno scolastico) e ho vissuto anche in Francia. All’estero, soprattutto in Nord Europa, è completamente differente la concezione dello straniero. Che poi il sentimento di accoglienza non è lo stesso… questo è risaputo».