La Costituzione della Repubblica Italiana non prevede uno stato di emergenza di tipo sanitario, ma prevede all’art. 78, il cosiddetto “stato di guerra”. Questa particolare condizione, in cui le camere conferiscono al governo poteri extra ordinem per fronteggiare il temporaneo e particolare stato di emergenza, sarebbe di stretta interpretazione, ed in ogni caso non applicabile (secondo alcuni) ad altre situazioni di emergenza come epidemie, catastrofi o altre situazioni eccezionali. Pur tuttavia, la Costituzione Italiana, non tralascia di regolare le situazioni di emergenza, prevedendo (art. 77) che il Governo possa adottare provvedimenti aventi forza di legge (decreti – legge), o sostituirsi a Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni in caso di “pericolo grave per la sicurezza e l’incolumità pubblica” (art. 120, co. 2 e 3).
Al di là delle varie qualificazioni, l’emergenza mette in pericolo la tenuta dell’intera impalcatura giuridica di uno Stato, specie quando quest’ultimo è uno Stato di diritto. Con l’avvento della pandemia da Covid-19, le misure adottate dall’esecutivo in nome del diritto alla salute (art. 32), hanno notevolmente compresso i diritti e le libertà fondamentali dell’individuo. Si pensi alle limitazioni che hanno interessato la libertà personale, di circolazione e di soggiorno, di studio, di riunione; una situazione mai verificatasi se non in tempo di guerra. I provvedimenti del Governo, adottati con la forma del DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), ovvero con una fonte secondaria del diritto, hanno acceso un ampio dibattito sulla violazione della gerarchia delle fonti del diritto.
A dirimere la vexata quaestio, anche se provvisoriamente, ci ha pensato il Giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, il quale, con la sentenza n. 54 del 2 gennaio 2021, ha riaffermato il “monolitico” principio costituzionale della inviolabilità della libertà personale sancito dall’art. 13 della Costituzione.
Il G.I.P., è stato chiamato a decidere sull’ammissibilità della richiesta, da parte del Pubblico Ministero, dell’emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di due soggetti per il reato di falso ideologico ex art. 483 c.p., avendo gli stessi falsamente attestato nell’autocertificazione presentata ai Carabinieri in sede di controllo, di trovarsi fuori dalla propria abitazione in contrasto con l’obbligo imposto dal DPCM 8 marzo 2020, per essersi recati presso il locale Ospedale, l’uno per eseguire alcuni esami clinici e l’altro per accompagnare il paziente.
Provvedendo con una sentenza di proscioglimento ex art.129 c.p.p., il giudice, nel ribadire che “le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (art. 13 Cost.), ha ritenuto che un DPCM, in quanto fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di atto normativo avente forza di legge, non può disporre alcuna limitazione della libertà personale. Pertanto, sancita l’illegittimità del provvedimento (DPCM) che impone l’autocertificazione, anche la fattispecie delittuosa di cui all’art. 483 c.p. (falso ideologico in autocertificazione) è venuta meno, avendo gli imputati posto in essere, secondo il parere del magistrato, un c.d. “falso inutile”.
Infine, il giudicante ha affermato che il DPCM in questione, in quanto atto amministrativo, può essere immediatamente disapplicato (ai sensi dell’art. 5 della Legge n. 2248 del 1865 , All. E) senza bisogno di rimettere la questione di legittimità innanzi alla Corte Costituzionale. È chiaro che se la via tracciata dalla sentenza in esame dovesse trovare ulteriori applicazioni, l’attività normativa del Governo per la lotta al Covid-19 ne uscirebbe fortemente indebolita fino alla pronuncia della Corte Costituzionale, alla quale, ancora una volta, spetterà l’arduo compito di pronunciarsi sulla questione, non appena investita della stessa, contemperando i diritti e gli interessi in gioco.
di Davide Daverio