egitto Amnesty Italia Giulio regeni

L’Egitto spara con armi Made in Italy: Amnesty Italia analizza i rapporti tra i due Paesi

Redazione Informare 05/01/2022
Updated 2022/01/05 at 12:49 PM
6 Minuti per la lettura

Dal golpe militare nel 2013, l’Egitto di al-Sisi è sotto la lente d’ingrandimento mondiale per la pedissequa violazione dei diritti umani. In particolare, ha suscitato molto clamore l’atteggiamento italiano nei confronti dello Stato Faraonico, soprattutto alla luce dei casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, si è sempre esposto per evidenziare le violazioni egiziane e l’incoerenza italiana. L’Italia, infatti, ha uno stretto legame commerciale con l’Egitto, basti pensare che nel 2015 le esportazioni italiane hanno fruttato circa 3 miliardi di dollari al nostro Paese. Ad oggi, circa 130 aziende italiane operano nel territorio egiziano. Un altro importante settore di scambio è quello militare: infatti, dal 2013 in poi, il Bel Paese ha esportato fucili, pistole e sofisticate tecnologie di sorveglianza, spesso utilizzate da al-Sisi per la repressione interna.

Secondo AMNESTY, qual è attualmente la situazione dei diritti umani in Egitto?

«Attualmente la situazione egiziana rimane ancora molto preoccupante, nonostante alcuni sviluppi positivi da verificare. In Egitto vi sono 60.000 prigionieri politici e l’abolizione dello stato d’emergenza il 25 ottobre non ha risolto nulla, dato che i processi nei tribunali d’emergenza vanno avanti. Ci sono, però, degli spiragli di speranza: nel 2022, infatti, l’Egitto ospiterà il COP27 e ci sarà lo spostamento provvisorio della capitale dal Cairo ad un’altra città. Al momento il giudizio è sospeso, resteremo a guardare».

Secondo il rapporto AMNESTY, nel 2020 in Egitto il numero delle esecuzioni è più che triplicato. Come definirebbe l’attuale politica messa in atto da al-Sisi?

«È una politica di completo diniego dei diritti umani, in cui la pena di morte è uno degli aspetti più gravi degli ultimi anni. Dal 2013 in poi, al-Sisi ha fatto ampio uso della pena capitale e, anche in questo momento, quasi tutti i processi termineranno con l’esecuzione dei detenuti. Questo si colloca in un quadro di sparizioni, torture, tribunali d’emergenza e leggi liberticide».

Secondo l’OPAL (Osservatorio Permanente delle Armi Leggere), l’Italia è uno dei maggiori esportatori di armi e attrezzature di sicurezza in Egitto. Crede che la responsabilità di questa drammatica situazione in Egitto risieda anche in Europa?

«Non c’è dubbio, quello delle armi è uno degli aspetti, insieme ad altri, che hanno dominato i rapporti bilaterali tra Italia ed Egitto, come il colpo di stato di al-Sisi nel 2013. L’Italia è rimasta inerme nel vedere il soccombere dei diritti umani, rispetto ad altre considerazioni come la lotta al terrorismo e il contrasto all’immigrazione. Alla base di ciò vi sono gli interessi economici, soprattutto quelli riguardanti gli idrocarburi. L’Italia, come altri paesi europei, ha fatto la sua parte».

Uno degli eventi che ha messo sotto la lente d’ingrandimento la situazione dei diritti umani in Egitto è stato il caso Regeni. Quali sono state, se ci sono state, le conseguenze nei rapporti tra Italia ed Egitto?

«Le conseguenze sono state nulle. Basti vedere come è andata la prima udienza, che si è fermata per una responsabilità completa della magistratura egiziana, la quale non ha fornito gli indirizzi degli imputati. La Procura di Roma ha fatto indubbiamente un grande lavoro, ma al momento ci troviamo in un punto morto, dato che il processo non è ancora partito. Questo è un enorme rammarico, dato che la verità e la giustizia non devono essere negoziate, devono essere garantite. Se c’è una storia che ha mostrato la timidezza e l’incoerenza italiana nei rapporti bilaterali con l’Egitto, questa è stata quella di Giulio Regeni».

Considerando che il processo Regeni non ha ancora avuto fine, secondo lei cosa avrebbe potuto fare l’Italia per arrivare alla verità?

«L’Italia avrebbe dovuto avere un approccio più deciso, ad esempio pretendendo che gli imputati sapessero del processo che si stava avviando nei loro confronti. Negli ultimi anni abbiamo visto una politica molto supina e accondiscendente nei confronti dell’Egitto; emblematico il caso del 14 agosto 2017 quando l’Italia decise di rimandare l’ambasciatore in Egitto, confidando erroneamente nel silenzio mediatico generale».

È di pochi giorni la notizia della scarcerazione di Patrick Zaki e fra circa un mese ci sarà il processo per la condanna definitiva. Personalmente, cosa si aspetta che accadrà?

«C’è molta cautela e prudenza poiché la scarcerazione di Zaki è provvisoria, infatti, Patrick è imputato in un tribunale d’emergenza che emette condanne non appellabili, rischiando una condanna fino a cinque anni. Ci sono altri esiti possibili, come una piena assoluzione, quella a cui tutti auspichiamo. In generale, in questi mesi c’è stato un generale disprezzo dei diritti della difesa, poiché tutte le richieste fatte durante l’udienza per la convalida della detenzione preventiva sono state rifiutate».

AMNESTY ha avuto un ruolo cruciale nelle campagne per Patrick Zaki e Giulio Regeni. Come definirebbe la risposta del popolo italiano a questa mobilitazione?

«È stata una risposta straordinaria! Sono state le campagne più intense di questo secolo, che hanno abbracciato vari mondi, tra cui quello dell’informazione pubblica e della società civile, oltre al Parlamento. Quello che è mancato è stata una risposta dall’alto a questa mobilitazione dal basso».

di Pasquale Scialla e Mesia Di Mauro

TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE

N°225 –  GENNAIO 2022

Condividi questo Articolo
Lascia un Commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *