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Laureati italiani in fuga: l’8% lavora all’estero

Cristina Siciliano 29/03/2023
Updated 2023/03/29 at 12:20 PM
4 Minuti per la lettura

C’è chi se ne va dall’Italia perché ha ottenuto una promozione che prevede un trasferimento all’estero, chi sceglie di cambiare vita o chi semplicemente vuole fare una nuova esperienza. Poi, invece, ci sono quei giovani in maggioranza laureati che se ne vanno dal loro Paese perché scelgono di non voler sottostare ad assenza di meritocrazia e stipendi inferiori alla media. Oggigiorno, tra il 5% e l’% dei laureati italiani parte per l’estero. Parliamo di una vera e propria fuga di cervelli che, invece di rappresentare un ritorno economico per l’Italia sono «dati in regalo» all’estero.

A ricordarlo di recente è stato l’Istat che, nell’ultimo rapporto sulle migrazioni, ha quantificato in un milione circa i nostri connazionali espatriati tra il 2012 e il 2021. Nonostante, ci sia stato un rallentamento durante la pandemia grazie ai tanti rientri, nel periodo il saldo tra chi parte e chi torna è comunque negativo: -79 mila persone tra i 25 i 34 anni possiedono un titolo di istruzione superiore.

Laureati italiani in fuga: le motivazioni

Protagonisti della “fuga di cervelli” sono ragazzi tra i 18 e i 34 anni con alte competenze, soprattutto in ambito tecnologico e di ricerca. La maggior parte di questi decide di recarsi all’estero per fare esperienza o arricchire il proprio CV e, in seguito, non torna più in patria perché non vede le stesse opportunità o grandi prospettive. Le ragioni sono varie; generalmente, i giovani laureati partono perché sono attratti dalle migliori opportunità offerte all’estero, «soprattutto in termini di retribuzioni e prospettive di carriera», si legge nel rapporto di AlmaLaurea.

A pesare, forse più di tutto, è la questione economica. Infatti, chi si trasferisce, a uno anno dalla laurea, ha una retribuzione mensile di circa 1.963 euro mensili netti. Contro circa i 1.384 euro percepiti in Italia.

In realtà, lo spostamento comincia già all’università. L’ultima rilevazione dell’Unesco, sulla mobilità studentesca in uscita e in entrata vede l’Italia assestarsi, rispettivamente, al 4,2% e al 2,9%. Senza disturbare gli Stati Uniti e il loro 0,6% “outbound” contro il 5,1% “inbound”, tutti i nostri competitor presentano lo scenario opposto: il Regno Unito ha l’1,5% in uscita e il 20,1% in entrata; la Germania il 3,8% e l’11,2%; la Francia il 4% e il 9,2%; la Spagna il 2,2% e il 3,8%; il Portogallo il 6% e l’11,6% e così via.  

Come trattenere i laureati in Italia

Una buona possibilità, da parte delle aziende italiane, modelli incentivanti nel trattenere talenti, potrebbe essere rappresentata da progetti di welfare adeguati. I benefit, infatti, rappresentano un incentivo importante per i lavoratori, sia per favorire un incremento del benessere aziendale, sia per supportare il work-life balance personale.

Inoltre, un’altra cosa che potrebbe diventare una leva strategica di attrattività verso il personale, la formazione. Sarebbe utile investire sui collaboratori con corsi formativi, aggiornamenti e progetti fuori sede, arricchisce l’esperienza lavorativa, permette di stimolare la motivazione, curiosità e ambizione dei lavoratori.

Per “custodire” i talenti all’interno dei nostri confini nazionali, c’è bisogno di un lavoro sinergico, dove misure politiche, di incentivazione fiscale, di investimento in spesa pubblica e di coinvolgimento partecipato dei soggetti coinvolti nell’educazione dalla fase pre-scolare a quella universitaria, si intreccino collaborando proattivamente. In questo modo, il trasferimento all’estero diventa una vera scelta, un’opzione alla cui base ci siano motivazioni diverse dall’assenza di alternative in Italia.

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