alcolismo

La possibile vita delle famiglie che convivono con l’alcolismo: la storia di Francesca

Giovanni Cosenza 14/03/2023
Updated 2023/03/14 at 12:31 AM
9 Minuti per la lettura

Il centro epidemiologico dell’Istituto Superiore di Sanità ha rilevato che nell’ultimo biennio 2020-2021, il 56% della popolazione italiana adulta consuma bevande alcoliche. Di questi il 15% ne fa un uso definito a “maggior rischio” per la salute, per quantità o modalità di assunzione. In Italia vivono circa un milione di alcolisti. Sono numeri allarmanti che descrivono un fenomeno molte volte nascosto all’interno delle mura domestiche e di cui si fanno carico i familiari, spesso senza strumenti adeguati per gestire chi vive questo disagio. Nel 1935, negli Stati Uniti, nasce Al-Anon, Alcolisti Anonimi, con lo-scopo di recuperare le persone con dipendenza da alcool. E di pari passo sorgono i Gruppi Familiari Al-Anon, giunti in Italia nel 1976, con la finalità di supportare chi vive con un alcolista in famiglia. I familiari in particolare erano mogli perché la stragrande maggioranza degli alcolisti erano maschi. Le mogli accompagnavano gli alcolisti al programma di recupero e si trattenevano tra di loro. Si resero conto di avere tante cose in comune soprattutto la necessità di aiutarsi reciprocamente. Di qui sono nati i primi gruppi. Abbiamo incontrato un familiare di un alcolista che, per riservatezza, chiameremo Francesca. Ci ha raccontato la sua esperienza.

Francesca, chi sei?

«Sono una donna di 72 anni che ha avuto l’arduo compito di convivere con un marito alcolista per decenni. E confesso, non senza difficoltà. L’alcool è una vera e propria malattia. Quando lo vedevo ubriaco lo giudicavo in modo efferato. Non capivo, pensavo che lo facesse apposta, pensavo di non essere una buona moglie degna di attenzione, mi sentivo tradita dalla bottiglia, ero incazzata nera».

Cosa fanno i Gruppi Familiari Al-Anon?

«Si incontrano per imparare a conoscere la malattia e a vivere con l’alcolista, che si recuperi o meno. Nei nostri incontri condividiamo esperienza, forza e speranza, ma soprattutto l’impegno di smettere di ignorare cosa sia l’alcolismo. E ti ringrazio perché ci dai l’opportunità di farci conoscere. Negli incontri impariamo a convivere con la dipendenza di un familiare, che guarisca o meno. Noi, ovviamente, auguriamo che guarisca ma potrebbe, nella sua libertà, scegliere di non farsi aiutare. E, indipendentemente da questo, noi familiari abbiamo il diritto di stare bene lo stesso! Impariamo come vivere con l’alcolista, come stare insieme a lui. L’alcol, assunto in grosse quantità, diventa un problema, non solo per chi lo assume, ma anche per chi convive con chi beve. L’aiuto reciproco è fondamentale. Chi, tra i familiari, vive questa situazione, si trova in un terremoto perenne, perché non sa cosa può capitare. L’alcolista è una persona emotivamente fragile e questa debolezza investe tutti. Noi condividiamo le nostre esperienze che servono per sostenerci, per prendere forza e portarla a casa. Non sappiamo cosa troveremo quando rincasiamo: potremmo trovare l’alcolista a terra ubriaco o vittima di un incidente, potrebbe aver contratto debiti, perso il lavoro, esser finito in galera».

Quanto è diffuso il fenomeno dell’alcolismo a Napoli?

«È enorme, è molto diffuso. Premetto che non sono un’esperta della materia ma con la pandemia è aumentato a dismisura. La dipendenza da alcool si gioca molto tra le mura di casa e la famiglia, quasi sempre, si vergogna da morire soprattutto perché non comprende le motivazioni di una scelta. La famiglia è molto coinvolta. Mentre per le altre dipendenze la persona può o deve delinquere, l’alcool è a portata di mano ed è presente nella nostra cultura e nella nostra società. Basta andare a Portalba o a Piazza del Gesù al mattino per trovare centinaia di bottiglie di alcool lasciate per strada. Le bottiglie sono visibili ma la sofferenza è nascosta nelle case».

Esiste un identikit di un alcolista tipo?

«La dipendenza da alcool è una patologia e la malattia come tale è democratica, non guarda in faccia a nessuno. Ronaldo è figlio di un alcolista morto nel 2005, la stessa Mara Venier o Michelle Hunziker hanno avuto un genitore alcolista. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha perso un fratello a causa dell’abuso di alcool e Stalin è stato ridotto in coma dal padre alcolizzato. Alcuni storici hanno visto in questa situazione la radice della sua rabbia e della sua violenza».

L’alcolismo ancora crea stigma sociale…

«Si, c’è ancora tanto stigma verso gli alcolisti, ma ribadisco che la dipendenza è una malattia. Siamo anonimi anche per questo anche se l’anonimato non è dei singoli. Tanti si vergognano, non riescono a parlarne facilmente. Molte persone giudicano, come facevo io, stigmatizzavo mio marito. E l’alcolista lo stigma lo sente tutto. Anche io mi vergognavo, ma ora non più. Sono cresciuta e considera che frequento questo gruppo di mutuo aiuto da 28 anni. Pensa che mia figlia, quando incontrava il padre ubriaco e stava con gli amici di scuola, faceva finta di non conoscerlo e non lo salutava. Siamo anonimi perché non ci interessa nulla di noi, vogliamo solo stare bene perché siamo accomunati da un disagio enorme. Vogliamo bene all’alcolista, non sappiamo come aiutarlo e tante volte invece di aiutarlo facciamo peggio. Il familiare ha bisogno di sostegno, non ce la fa da solo. L’alcolista soffre e crea sofferenza. I familiari hanno bisogno di stare insieme perché se assorbono quella sofferenza non possono più aiutare sé stessi né l’alcolista, si distruggono. È come un tornado, che dove passa lascia macerie».

Dall’alcool si può uscire?

«Certo, se l’alcolista decide di uscirne. Ogni giorno sceglie e rinnova il desiderio di non bere. Ed anche noi familiari rinnoviamo ogni giorno il desiderio di occuparcene e tenere la porta aperta. Il principio è quello della reciprocità secondo la preghiera di San Francesco d’Assisi, molto cara agli alcolisti anonimi, anche se il programma è aconfessionale. “È dando che si riceve”, diceva il poverello di Assisi. Io tengo la porta aperta perché aiutando gli altri posso aiutare me stesso».

Cosa ti senti di consigliare a chi ha un familiare alcolista?

«Chiedere aiuto, senza dubbio. Il familiare pensa di poterci riuscire da solo, ma non è possibile. Spesso si vergogna perché “i panni sporchi si lavano in famiglia” ma non serve a nulla vergognarsi. Io ho chiesto aiuto dopo 20 anni e non posso che consigliare di fare lo stesso. Anche durante la pandemia ci siamo riuniti, ma online. Avevamo bisogno di stare insieme per darci forza e sostegno reciproco. Stare insieme serve a tenere i piedi per terra e a controllare l’emotività. Se un familiare di un alcolista sta bene, porta a casa benessere ed è possibile che questo incoraggi anche l’alcolista a stare bene e a prendersi cura di sé. A volte arrivano prima loro a chiedere aiuto, a volte lo facciamo noi per loro. E quando un giornalista ci chiede di parlare dell’alcolismo per noi è un’opportunità, una cosa grande. Abbiamo bisogno di far conoscere il grave problema della dipendenza da alcool e per questo chiedo di riportare il numero verde per chi avesse bisogno di aiuto. Non abbiate vergogna. Questo il numero 800 087 897».

Condividi questo Articolo
Lascia un Commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *