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“La tempesta”: una visione postmoderna di Luca De Fusco

Redazione Informare 24/10/2019
Updated 2019/10/24 at 2:58 PM
4 Minuti per la lettura

Dopo la prima nazionale al Teatro Grande di Pompei, è stata rappresentata al Mercadante di Napoli “La tempesta” di W. Shakespeare, diretta da Luca De Fusco, con Eros Pagni e Gaia Aprea (una produzione “Teatro Stabile Napoli” – “Teatro Nazionale Genova” – “Fondazione Campania dei Festival”)

Quando ci si confronta con un classico come “La tempesta” di Shakespeare, bisogna sempre chiedersi quale significato esso possa acquistare alla luce del presente.

Nelle note di regia viene riportato un passo di “Shakespeare. Il teatro dell’invidia” (Adelphi) di René Girard, in cui si può cogliere la sostanza stessa di questo concetto. Prospero, duca di Milano in esilio, nonché abilissimo mago, rappresenta un alter ego dello stesso autore, in quanto demiurgo della materia scenica. Egli, infatti, attraverso le sue magie, muove della vicenda, al fine di scontrarsi e perdonare i fantasmi del passato. Eppure, fin qui, non si è detto nulla che non sia già presente nell’originale shakespeariano.

Il carattere innovativo e “postmoderno” di questa versione sta nell’ottica deformante che propone allo spettatore.

L’antro diventa una grande biblioteca continuamente trasformata dalle allucinazioni del mago. Le proiezioni sono efficaci e ben misurate nell’ambito del pensiero registico che ci viene proposto. Tutto ciò che vediamo non è null’altro che l’apparenza di una percezione intellettuale di un uomo che da anni ha più contatto con la carta dei libri che con la carne degli esseri umani.

Ed ecco che anche gli altri personaggi subiscono una deformazione, evidenziata dai ritratti proiettati sulla biblioteca-sfondo. Nascono, quindi, effetti stranianti, come l’usurpatore Antonio, con un vestito di machiavelliana (e machiavellica) memoria, o il re Alonso, accostato al Re Sole, per non parlare della Dea Giunone, rivisitata in salsa pop, 00con i tratti distintivi di Marilyn Monroe.

Un altro aspetto degno di menzione, che ben suggerisce la vera e propria “esplosione letteraria” nella mente del protagonista, è la traduzione operata da Gianni Carrera, volutamente “infedele” all’originale, in quanto ricca di citazioni e contaminazioni esplicite ad altre opere shakespeariane.

La scelta più significativa a dimostrazione di questa tesi è, però, consiste nella fusione di Ariel e di Calibano nell’interpretazione di una poliedrica Gaia Aprea. Le prime parole dei personaggi hanno la voce dello stesso Pagni e, una volta in scena, assumono, attraverso una maschera, i suoi tratti somatici. I due servi, sembra voler dire De Fusco, non sono altro che “doppi” di Prospero, sue proiezioni aventi la medesima sostanza.

Questa “tempesta” della cultura occidentale ha restituito sulla costa una diversa centralità di Prospero (a cui Eros Pagni ha restituito dolcezza e sguardo disincantato) che ricorda quasi il Don Chisciotte nella sua biblioteca nelle illustrazioni di Gustave Doré.

”Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti sogni”: questo è il messaggio poetico che, più di tutti gli altri, colpisce l’attenzione di uno spettatore del ventunesimo secolo, posto sempre davanti al continuo fallimento dell’esperienza. Nell’epoca delle “fake news”, della “post-verità”, della “post-esperienza”, insomma, della “postmodernità”, questo allestimento afferma che “La tempesta” è un classico ancora attuale.

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