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La condanna di Weinstein insegna a non avere più paura

Mara Parretta 30/03/2020
Updated 2020/03/30 at 2:32 PM
5 Minuti per la lettura
Harvey Weinstein arrives at a Manhattan courthouse as jury deliberations continue in his rape trial, Monday, Feb. 24, 2020, in New York. (AP Photo/Seth Wenig)

Il 24 febbraio 2020, il Tribunale penale di Manhattan, ha pronunciato una sentenza esemplare: condannato lo storico e potente produttore di Hollywood, Harvey Weinstein, a 23 anni di reclusione.

Il giudice James Burke ha accordato per una pena consecutiva: 20 anni per aggressione sessuale ai danni dell’assistente Miriam Harley e 3 anni per rapporto sessuale non consensuale con l’aspirante attrice Jessica Mann. La sentenza che ha condannato Weinstein, non ha solo (e finalmente) reso giustizia alle donne che hanno avuto il coraggio di denunciare e di testimoniare, ma assume una connotazione storica.

Il caso comincia nell’ottobre del 2017, quando il New York Times pubblica un’inchiesta in cui alcune attrici denunciano di essere state vittime di violenze e abusi da parte del produttore, tra le quali Ashley Judd e Rose McGowan. Da quel momento, nel mondo del cinema e dello spettacolo mondiale nulla è stato più lo stesso. Quell’inchiesta ha aperto un vortice. Più di 80 sono state le accuse mirate a Weinstein nel corso del tempo e migliaia di attrici hanno cominciato a pubblicare sui loro social proprie confessioni, esperienze o vere e proprie accuse, con l’#Metoo, che poi è diventato un movimento femminista che si oppone alle violenze subite dalle donne sul posto di lavoro in generale, e che si scaglia soprattutto contro un sistema radicato nel cinema.

Molte attrici hanno raccontato di come la loro fortuna ha il prezzo di violenze o abusi subiti.  “Sesso in cambio di una carriera o di un lavoro”: un meccanismo intollerabile, che denigra la libertà personale e sessuale e che rende il caso Weinstein non un caso isolato, con un unico capro espiatorio, ma solo la punta dell’iceberg.

Dall’inchiesta, infatti, tanti esponenti del mondo del cinema sono stati accusati, tra gli ultimi, il regista francese Roman Polanski, nei cui confronti si è riaccesa la polemica in occasione dei César (Oscar francesi) del 28 febbraio.

Il conferimento di 3 premi al regista ha scatenato il disappunto di molte attrici, che hanno boicottato la celebrazione, tra cui Adèle Haenel.

Il polverone sollevato dal caso Weinstein ha fatto la sua parte anche per l’Italia.

15 attrici hanno accusato di violenza il famoso regista Fausto Brizzi ed il caso, poi archiviato dal GIP di Roma, ha portato alla luce una forte discrepanza del sistema giurisdizionale italiano: secondo l’art.609 septies del codice penale, le donne hanno soltanto 6 mesi di tempo per poter denunciare violenze sessuali; altrimenti, in caso di decorso della perentorietà, è ammesso il ricorso esclusivo all’azione civile. Discrepanza che ci contrappone nettamente al sistema americano.

Proprio nel caos sollevato dal caso Brizzi, 124 attrici italiane hanno presentato una lettera dal titolo “Dissenso comune”. L’intento era quello di mostrare solidarietà alle colleghe che avevano denunciato e di contribuire a sradicare la concezione della donna sul posto di lavoro. Perché la molestia sessuale nel mondo del lavoro, non è soltanto una manifestazione patologica imputabile al singolo, ma causa di un sistema governato da maschilismo e disparità. Sul posto di lavoro sono incontrovertibili la maggioranza maschile, le differenze nel trattamento, nel compenso e nell’incarico affidato in base al sesso.

Questo rende le donne vulnerabili perché la loro posizione lavorativa sembra poter dipendere dallo sfruttamento del proprio corpo o risultare da un compromesso, alienando l’intelligenza, le abilità e capacità. E questo sistema è ancora più imponente nel mondo del cinema, dove le attrici incarnano, con il loro corpo e la loro bellezza, il desiderio comune (maschile).

Allo stesso tempo, proprio le attrici e le esponenti dello spettacolo, godono di una possibilità che le persone comuni non hanno: la visibilità.

Questa per loro non deve rappresentare un’ulteriore minaccia e un ulteriore motivo per tacere, ma un motivo in più per denunciare, parlare, esporsi. Le attrici possono davvero innescare, dall’alto, una rivoluzione per fare in modo che, nessuna donna, in qualsiasi ambito lavorativo, venga concepita come un corpo, un desiderio fisico e mai come intelligenza o idea. Il sistema va sradicato perché è inaccettabile, agghiacciante e inammissibile nell’era dell’emancipazione femminile.

E forse il merito più grande va proprio attribuito al caso Weinstein, al movimento Metoo e alle attrici che hanno trovato il coraggio di parlare: grazie a loro il corso della storia è cambiato. Le donne non devono avere più paura.

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