Vincenzo Failla è un attore di successo nel panorama artistico italiano; sin da giovanissimo si avvicina alla musica, al teatro per poi maturare definitivamente la passione a seguito dell’incontro con Arnoldo Foà, che lo accogliere come attore per la messa in scena de “La corda a tre capi”. Nel tempo, ha lavorato al fianco di Valeria Moriconi, Elio Pandolfi, Enrico Brignano, Tato Russo, Giorgio Strehler, Pietro Garinei. Tante le serie televisive cui ha preso parte: da “Un posto al sole” a “Distretto di polizia”, da “Provaci ancora prof” a “Fratelli detective”, passando per “Il Commissario Montalbano”, “Squadra Antimafia”, “La fuggitiva”.
Sul piccolo schermo, viene particolarmente apprezzato, soprattutto in Campania, per la partecipazione alla nota serie televisiva “La squadra”, che lo vede nella regione meridionale per tanti anni. Numerose esperienze anche in ambito cinematografico: da “I mercenari dell’apocalisse” a “Arriva la bufera”, da “L’inganno” a “Calibro 10”, da “Ti stimo fratello” a “Uno anzi due” fino all’attività di formatore e docente nelle più importanti scuole di settore in Italia. Nel corso dell’intervista, che ha rilasciato al nostro magazine, l’attore ci ha raccontato del rapporto con la Campania, con Napoli, dell’esperienza de “La Squadra”, della docenza, dei prossimi progetti.
Che rapporto ha con la Campania in generale e con Napoli in particolare, in considerazione della sua presenza costante sul set della nota fiction televisiva Rai “La Squadra”, ambientata proprio in questa Regione?
«Adoro Napoli perché è portatrice di una storia, di una cultura, che è unica in Italia. Sono orgogliosamente siciliano, di Siracusa, ma vivo a Roma da tanti anni; la Sicilia trasuda storia. A Napoli mi sento a casa per una contaminazione che c’è tra la storia ed il mito, proprio come in Sicilia, dove tutto è mito. Napoli è infinita, ci sono sempre aspetti da scoprire. Ho moltissimi amici, anche fraterni, napoletani. Ne adoro il dialetto. Ho fatto ricerche, fin da piccolo, sul teatro napoletano, sul dialetto, sulle sceneggiate, sulle macchiette. Ho una discreta conoscenza della cultura napoletana, che adoro».
Quanto e cosa deve, artisticamente parlando, al celebre dottore Moreno Mari, personaggio che ha interpretato all’interno della fiction televisiva?
«Mi ha dato una certa popolarità. Faccio questo lavoro da oltre quarant’anni. Ho iniziato come musicista, ho fatto il Conservatorio, sono stato in orchestra. Ho incontrato, successivamente, colui che è divenuto il mio maestro, ossia Arnoldo Foà, uno dei più grandi attori italiani. Pian piano, almeno da un punto di vista lavorativo, ho lasciato, la musica; ciononostante, però, ancora oggi, continuo a suonare anche perché sono in mezzo alla musica di continuo visto che i miei figli sono musicisti e la mia compagna è una ex direttrice di Conservatorio. “La Squadra”, che ho cominciato a fare nel 1999, anche se poi è andata in onda nel 2000, è stata girata almeno fino al 2009. In quegli anni, ogni settimana ero a Napoli. La Rai, negli anni successivi, non ha mai smesso di mandare in onda le repliche della fiction. La cosa incredibile è che questa serie mi ha dato una popolarità che prima non avevo; mi fermano ancora oggi per “La squadra” persone soprattutto molto giovani, che all’epoca non c’erano ma che l’hanno vista in replica».
Tra gli episodi accaduti, in termini di notorietà, a seguito della partecipazione alla serie televisiva, qual è quello che ricorda con particolare attenzione?
«Oggi mi fermano a Palermo, a Trieste; mi riconoscono come il “dottore Mari anatomopatologo”. Mi sono successe, in questi anni, episodi tra i più disparati: a Messina, al termine di uno spettacolo teatrale, arrivai in hotel e lasciai la mia macchina, impolverata ed un po’ particolare, parcheggiata all’esterno della struttura; l’indomani mattina, scendendo, la trovai lavata, pulita, brillante. Non è abituale una situazione del genere; feci all’epoca una ricerca per capire chi fosse stato. Dopo diversi giorni scoprii che un signore, avendomi riconosciuto, non soltanto aveva apprezzato il tipo di macchina fuori dall’ordinario, ma aveva anche saputo che era la mia e quindi, lavando la sua, pensò di lavare anche la mia. Ho veicolato questa napoletanità pur non essendo napoletano».
Che ruolo ricopre la provenienza da una terra dedita all’arte del teatro, alla cultura, all’interno della carriera di un attore? In particolare, che lavoro c’era dietro la realizzazione delle puntate della fiction?
«Duemila anni fa a Siracusa si andava a teatro; c’erano teatri con circa 8mila posti e persone che svolgevano il mestiere di attore, scrittore, poeta, ballerino, musicista: questo non accadeva in altre realtà, anche molto belle, d’Italia. Il Sud porta con sé una cultura millenaria nel campo dell’arte. Io trovo normale che un siracusano faccia teatro perché succedeva già duemila anni fa. Le carriere non si possono indirizzare come si vuole; hanno un loro sviluppo, dipendono dalle occasioni, dalle persone che si incontrano. Quando mi hanno proposto, ad esempio, “La squadra” in un primo momento rifiutai perché non volevo fare fiction televisive anche perché nel 1999 non era molto apprezzato quel genere e perché sembrava un progetto strano, quasi di fiction industriale: si lavorava con più troupe contemporaneamente; gli attori lavorano a due puntate, gli scrittori e gli addetti al montaggio ad altre due. Noi, ad esempio, lavoravamo, nella stessa settimana, per gli interni a Piscinola per una puntata, mentre per gli esterni per una nuova. In quel periodo, si ospitavano anche commissioni, che venivano dal Giappone e da altre realtà per vedere come si lavorava. Era una macchina da guerra».
Il suo personaggio, con il trascorrere del tempo, ha assunto una posizione sempre più centrale, tanto da essere apprezzato e ricordato ancora oggi. Come se lo spiega?
«Sono nato sì come un personaggio fisso, ma minore; non ero tra i protagonisti. La cosa bella è che, via via, la situazione è cambiata senza che lo volessi. Gli autori, per il fatto che fossi un musicista, che avessi, da sempre, una passione per il cibo, per la storia della gastronomia, piano piano, hanno cominciato a scrivere per me. Il personaggio Mari, nel giro di un paio d’anni, è diventato sempre più di primo piano. Abbiamo realizzato puntate in cui suonavo la batteria, stavo all’obitorio con le bacchette a fare esercizi sulla scrivania oppure mangiavo panini che avevo nel frigo della sala. Erano anche delle idee che venivano suggerite dagli autori, che poi, nel tempo, sono cambiati oppure ispirate al momento. Se si aveva il polso della situazione, durante la registrazione si proponeva al regista di turno una idea e se piaceva si cominciava a ridere e a lavorare. Quando, successivamente, all’interno della serie sono subentrati alcuni attori “consumati” di teatro come Massimo Wertmuller, Chiara Salerno, non si poteva improvvisare, ma attenersi al copione. Io e Massimo, come coppia, eravamo uniti: senza parlarne prima, facevamo cose che avevamo appreso dai grandi, come Totò, De Filippo, Taranto; tra noi c’erano delle pause, degli sguardi che parlavano; non ci allontanavamo dal testo scritto».
Nel tempo ha partecipato ad altre serie televisive e film, dai tratti polizieschi. Qual è la differenza con “La Squadra”?
«Ho partecipato anche ad altre serie televisive, ma non con lo stesso piacere: non c’era nulla di quell’artigianato teatrale che, invece, era presente in “La Squadra”, un discorso diverso, in cui l’atteggiamento era più teatrale; si faceva parte di una grande macchina dove i personaggi erano molto ben delineati. Ho fatto molto in tv, film con Pupi Avati. “La Squadra” è stato il passo fondamentale».
Quale bilancio si sente di tracciare, ad oggi, del suo percorso artistico?
«Il tutto nasce dal teatro, il mio grande amore; è la formazione di un attore. Tra l’altro, insegno recitazione nella più importante scuola di doppiaggio esistente in Italia, pur non essendo doppiatore. Non amo il doppiaggio; è una specializzazione del mestiere dell’attore. Io adoro fare tournee, la fatica, i viaggi, i ristoranti. Sono un animale da tournee. Ho fatto doppiaggio per meno di un anno e sono scappato. Ho cresciuto i miei tre figli facendo soprattutto teatro, poi cinema e, successivamente, televisione proprio in questo ordine senza mai smettere. Insegno da oltre dieci anni ed ho scritto anche libri sulla musicalità della frase. I miei studi musicali mi hanno portato a mettere a punto le tecniche di recitazione. Il mercato oggi è cambiato, non esistono tournee. Quando ho cominciato io si veniva scritturati per uno spettacolo per uno spettacolo che si portava in giro per l’Italia per circa un anno. Adesso non è così: lo spettacolo, ad esempio, dura qualche mese, poi si ferma, poi inizia nuovamente. È meno noioso forse, ma si impara di meno».
Da insegnante, qual è la caratteristica su cui si focalizza maggiormente nella preparazione di un giovane attore?
«Insegno recitazione; mediamente gli attori giovani non studiano, credono che sia un fatto di talento. Oggigiorno pensano che basti provare, scoprire di essere bravi e credono di fare questo lavoro. Quello dell’attore è un mestiere che, secondo me, non è di tipo artistico; un attore non è un artista, ma un artigiano. Come tutti gli artigiani deve conoscere i propri strumenti di lavoro e riuscire a fare le cose bene. Inoltre, deve conoscere, secondo me, il proprio corpo, la propria voce, la propria gestualità, avere una conoscenza studiata di tutto questo aspetto artigianale. Se fa bene il suo lavoro di artigiano, può succedere che compia delle opere d’arte».
Cosa pensa della promozione sui social di un giovane attore rispetto alla tradizionale gavetta?
«Il giovane attore evita la gavetta perché non la conosce; è tempestato da informazioni, da internet: ciò che conosce è quello, ma non è ciò che, in effetti, esiste nel mondo. Non è colpa sua, ma deve puntare a qualcuno che faccia capire che le cose vanno diversamente. Non si può crescere guardando un prodotto finito, ma è fondamentale osservare l’evoluzione del prodotto per arrivare a quello finito. Altrimenti si confonde il ruolo di pubblico con quello di addetto ai lavori. Chi non ha conoscenza, ad esempio, vede un film e basta non sa il lavoro che c’è prima».
Nel corso della sua carriera artistica ha recitato al cinema, al teatro, in tv; tante esperienze. Cosa, però, vorrebbe ancora fare?
«Ho fatto molto di più di quello di cui si è parlato: dal musical all’operetta, ho lavorato con Brignano, con il Teatro Sistina, ai libri, alla radio, in teatro, al cinema, alla televisione, ho assaggiato il doppiaggio. A me interessa non annoiarmi, fare varie esperienze, incontrare le persone. L’esperienza dell’insegnamento è fondamentale perché credo che sia la cosa che più mi piace fare non solo in ambito teatrale. Sono un formatore, ho fatto anche dei corsi, insegnato in aziende. Il formatore è quel tipo di insegnante che deve lasciare un segno con ciò che dice, che fa ad ogni incontro, deve far sì che chi partecipa torni a casa con un risultato. Il mio lavoro non è comunicare e basta, ma graffiare, lasciare un segno».