A Napoli, dietro l’immagine di metropoli affascinante, si nasconde un fenomeno sempre più pervasivo: la criminalità giovanile. Per gettare luce su questa realtà, abbiamo incontrato Claudio Salvia, Funzionario Amministrativo della Prefettura di Napoli, nonchè figlio di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale assassinato per ordine di Raffaele Cutolo. La testimonianza di Claudio ci introduce in un mondo oscuro e spietato, in cui giovani vite si affidano all’illusione di un potere effimero. Analizzando le radici profonde di questo fenomeno e delineando possibili soluzioni per contrastarlo, ci auspichiamo che la luce della speranza e della legalità possa presto illuminare le strade di Napoli.
A Napoli le baby gang sono caratterizzate da una contiguità con la criminalità camorristica, quali sono i motivi di tale fenomeno?
«Svariate sono le motivazioni che possono condurre i giovani verso l’ineducazione alla legalità. Si tratta di ragioni sia di natura economica, come l’offerta occupazionale del territorio, sia di natura sociale, come il disagio economico che sfocia nella povertà, la difficoltà di integrazione dei minori di bassa estrazione sociale o di origine straniera nonché la condizione del nucleo familiare e del substrato sociale in cui il minore cresce. La camorra, ha la sua “scuola” del crimine che prepara le aspiranti leve sin dall’età dell’adolescenza. Il più delle volte, questi ragazzi provengono da ambienti malavitosi i cui genitori ricoprono già ruoli di spicco all’interno delle organizzazioni camorristiche.
La D.I.A., nella relazione semestrale sulla criminalità, sottolinea come in ambienti particolari, dove si respira un’aria intrisa di camorra, vi sono ragazzi che vengono indotti dagli stessi genitori a commettere crimini, anche in tenerissima età. Tutto ciò allo scopo di rafforzare il clan e di ampliare i propri loschi affari. Non di rado si assiste ad una vera e propria escalation criminale che, il più delle volte, porta questi ragazzini a diventare dei veri e propri boss. I minori, infatti, rappresentano manovalanza per la criminalità, da impiegare in particolare, nelle attività di spaccio delle sostanze stupefacenti».
Chi e come dovrebbe intervenire per prevenire tale fenomeno?
«Non basta affrontare il tema della devianza solo da un punto di vista teorico, è necessario essere promotori di energia fattiva e di azioni concrete che vadano nella direzione della prevenzione e che forniscano ai giovani modelli “altri” nei quali identificarsi. A questo proposito, negli svariati incontri nelle scuole dove partecipo per promuovere l’educazione alla legalità, spesso mi è capitato di incontrare giovani di un’età compresa tra i 10 ed i 18 anni, che dichiarano di avere poca fiducia nelle istituzioni.
E sono proprio coloro coinvolti in forme di vandalismo, la loro è violenza di separazione, di distanza dallo Stato e dal resto della società. Bisogna potenziare le pattuglie, i sistemi di videosorveglianza in città, ma soprattutto rafforzare i rapporti tra Scuola e Servizi Sociali, già molto attenti, per una tempestiva segnalazione dell’abbandono dell’obbligo scolastico in modo da attenzionare queste problematiche. Bisogna intervenire nei quartieri difficili, al fine di sradicare i minori in odore di camorra e dare loro un’opportunità concreta, far capire loro che siamo sommersi da falsi miti.
Dobbiamo scuotere le coscienze, partendo dai più giovani, entrando nelle scuole e far capire loro che c’è un’alternativa. Far capire loro che ognuno deve fare la sua parte. Tutti siamo indispensabili in questa società e bisogna partire dal basso per cercare di consegnare ai nostri figli una società culturalmente più evoluta».
Stiamo vivendo un’emergenza criminale minorile?
«Assistiamo a Napoli, e non solo, ad una vera e propria emergenza criminale e sociale. Dal punto di vista normativo è da rilevare la duplice funzione del processo penale minorile, teso a bilanciare sanzione e rieducazione generando percorsi di responsabilizzazione per i minori. Il recupero del minore non si esaurisce con l’esecuzione della pena, ma richiede una rete di effettivo sostegno sociale.
Oggi, inoltre, il nostro sguardo sulla devianza deve essere più ampio, in quanto non va più rintracciata solo nei contesti socio economici più degradati. Si parla, infatti, di “malessere del benessere”, di “teppismo per noia”, tutte quelle azioni violente che hanno una matrice esibizionistica».
Altra caratteristica della criminalità minorile è data da veri e propri reati predatori classificabili nella forma criminale “epidemica” che non hanno nulla a che vedere con la Camorra. Quale pensa sia la forma predominante a Napoli?
«Entrambe le forme coesistono, non per forza per commettere un reato un giovane deve far parte di un’organizzazione criminale. Viviamo una realtà nella quale questi ragazzi vogliono affermare la loro supremazia, dove viene meno il potere della parola. Vi è uno scarso controllo degli impulsi e vi è molta rabbia repressa.
La pandemia ha ulteriormente aggravato questo fenomeno, a causa della reclusione forzata. Per una serie di ragioni diverse, questa forma naturale di disagio può sfociare in comportamenti antisociali, pericolosi per sé o per gli altri. Ne sono esempi gli atti di bullismo verso i coetanei, l’uso di droghe e tutti quei reati come: rapine, scippi, estorsioni, uso di armi e omicidi. Dunque, non reati di evasione e di disagio esistenziale ma reati predatori e violenti».
Ha avuto tanti incontri con i giovani, c’è una storia che l’ha colpita particolarmente?
«In uno dei miei tanti progetti in una scuola, mi fu segnalato dal dirigente scolastico un ragazzo di 12 anni per la sua situazione familiare disastrosa. Il fratello di questo ragazzo aveva ucciso il padre in quanto quest’ultimo abusava della loro sorella. Il ragazzo dunque, che non aveva punti di riferimento, scelse come suo “idolo” Raffaele Cutolo; quest’ultimo rappresentava il suo ideale di uomo potente, quello armato di pistola. Ho affrontato con lui diversi incontri, l’ho coinvolto in molte attività e ho cercato di dargli la giusta attenzione.
Questo ragazzo è emerso! La sua insegnante di italiano mi segnalò un tema del giovane in cui parlava di me e di mio padre descrivendoci come eroi. Io ho semplicemente cercato di offrirgli delle alternative, cercavo di fargli capire che i “falsi miti” si celano all’ombra dei veri miti. Miti come appunto mio padre, che si è speso per la società con il gesto più estremo: quello di donare la propria vita. Se si riesce a salvare anche un ragazzo su mille significa aver speso bene il proprio tempo ed essere riusciti nel proprio intento. Dopo l’inversione di tendenza di questo ragazzo, io posso affermare di aver vinto».