INTERVISTA. Piera Ambroselli racconta la magia del Teatro Piccolo di Milano

Fernanda Esposito 10/09/2022
Updated 2022/09/13 at 1:10 AM
6 Minuti per la lettura

Parlare del Teatro Piccolo di Milano significa toccare una vera istituzione: primo teatro stabile pubblico in Italia dal 1947. Principale fondatore e anima dominante il mitico autore e regista Giorgio Strehler, del quale si vanno a concludere proprio in agosto le celebrazioni dei 100 anni dalla sua nascita (www.giorgiostrehler.it).

Personalmente, qualche tempo fa, ho avuto il privilegio di visitare il Teatro Piccolo, accompagnata da una guida d’eccezione: Piera Ambroselli, responsabile della sartoria del teatro, ora in pensione.

Suo è il racconto di un mestiere dove l’arte e l’artigianato si incontrano; di tutto ciò che rende possibile la magia in scena, ma che il pubblico non vede. Un viaggio surreale tra ricordi e aneddoti particolari, tra abiti antichi e costumi di scena realizzati con cura maniacale, il tutto grazie alla sua passione e professionalità che l’hanno catturata dall’alba al tramonto lungo l’arco della sua brillante carriera. 

“Non ci può essere teatro senza il valore dell’umano. Senza quella luce non c’è niente” ha affermato Strehler. Qual è il suo ricordo del grande Maestro? 

«Un regista visionario, molto esigente, che dava un contributo creativo unico, dava tutto se stesso, sapeva capire e apprezzare il valore del mio lavoro. Certo i ritmi erano durissimi e molto stressanti. Strehler diceva che “il teatro è un convento laico” cui sacrificarsi. Ed è proprio così, deve piacere davvero questo mestiere». 

Come sei diventata sarta teatrale? 

«Ho sempre fatto la sarta, lavorando per personaggi come Versace. Un giorno decisi di rispondere all’inserzione di un giornale. Un annuncio un po’ strano che mi ha incuriosito. Di teatro non si parlava, quando ho saputo che si trattava del Piccolo ho accettato immediatamente. La mia è stata una vera passione». 

Come si svolgeva il tuo lavoro Piera? 

«Io realizzavo gli abiti di scena dopo che il regista, insieme al costumista, realizzavano i bozzetti. Spesso avevo l’opportunità di offrire qualche consiglio o di scegliere le stoffe».  

Come si procede tecnicamente?  

«Attraverso un lavoro intenso di studio e ricerca, necessario per comprendere le fatture, gli schemi di taglio e le modalità di realizzazione di abiti che appartengono ad epoche differenti. Ho consultato materiale bibliografico, iconografico, film; in particolare testi provenienti dal Regno Unito e che non si trovavano in Italia, nei quali sono riprodotti schemi di taglio dal 1560 in poi. Per la sceneggiatura dello spettacolo “Lolita” ho consultato fotografie e vecchi film, anche se i costumi di Luca Ronconi si collocavano in una dimensione atemporale. Un’altra volta, per vestire un personaggio da Doge, andai a Venezia per scoprirlo da vicino». 

Che ruolo hanno i costumi in un allestimento teatrale? 

«Sono una parte fondamentale, per registi come Strehler poi, un punto di partenza. Il costume teatrale vive sulla scena, un movimento ed una luce possono rendere necessario modificare un dettaglio, oppure cambiare totalmente un abito. Quelli sono momenti difficili, perché non c’è tempo ed occorre fare in fretta e bene. Giorgio Strehler iniziava con un’idea precisa. Esigeva che si provasse in costume fin dal primo giorno e questo consentiva di arginare gli imprevisti dell’ultimo minuto. Ne “L’isola degli schiavi” (1994/95) abbiamo fatto un costume di Arlecchino elaboratissimo: tutti i rombi attaccati a mano e lungo le cuciture c’erano delle paillettes lucide. Quando Strehler ha visto il costume sotto le luci di scena ha preteso di eliminare la lucentezza delle paillettes. Abbiamo dovuto opacizzarle una ad una. In realtà dalla sala non si vedevano ma Strehler era attentissimo ai dettagli, ed aveva ragione. L’unica paillettes a luccicare era quella posta al centro dei bottoni del gilet dell’arlecchino, ognuno dipinto e ricamato sopra. Un effetto bellissimo». 

Un lavoro complesso e altamente sfidante. Si tratta di vestire i sogni, le visioni dei vari registi. Piera cosa provavi nel vedere sul palcoscenico i costumi che realizzavi? 

«Emozione pura, in quel momento la fatica svaniva. Provavo solo soddisfazione per abiti che sentivo un po’ miei che hanno contribuito alla riuscita di spettacoli memorabili. Mi sento privilegiata, ho svolto un lavoro che ho amato tanto e che mi ha permesso di viverne la frenesia, la creatività e l’opportunità di lavorare insieme a persone incredibili».  

Per concludere Piera, cosa diresti a un giovane per invogliarlo a scoprire questo mestiere? 

«Non è un mestiere per tutti e non è così facile trovare dei bravi collaboratori. Ero in commissione alla Scala per selezionare gli studenti candidati ai corsi nella sartoria del Teatro e ricordo che era veramente un compito arduo. Non bastano i corsi di formazione, troppa teoria e poca manualità. Bisogna tornare a frequentare le botteghe di eccellenza. La sartoria conserva i segreti di un mondo incantato, fatto non solo di ago e filo, ma di cultura e passione per il bello».

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