Bologna, Palermo, Milano, Napoli. Sono solo quattro eppure è negli atenei di queste città che si sono consumati negli ultimi anni tanti, troppi suicidi di giovani ragazzi iscritti all’università. Tra di loro non troviamo giustamente i loro nomi ma troviamo le loro storie: c’è chi aveva invitato i propri parenti nella città dove conduceva gli studi per la cerimonia di laurea, peccato che quegli studi non fossero mai nemmeno iniziati. C’era chi aveva paura di perdere la borsa di studio, c’era chi era fuoricorso e si sentiva ormai come un pesce fuor d’acqua, c’era chi aveva paura. C’era, appunto, perché quei ragazzi un futuro non l’hanno più avuto. Ma che cosa sta succedendo alla nostra società, rispetto al mondo della formazione? Che cosa spinge un ragazzo o una ragazza di circa 20 anni a compiere un gesto estremo quando parliamo della propria carriera accademica? Dove vanno ricercate le responsabilità rispetto ad un mondo che sempre più studenti e studentesse raccontano come iper performativo, asfissiante, quasi per nulla stimolante?
Senza l’ambizione di rispondere in maniera esaustiva a tutte queste domande abbiamo cercato alcune delle risposte con Cristina Trey, studentessa della Federico II e coordinatrice del sindacato universitario Link Napoli.
Innanzitutto, che cos’è l’università oggi?
«L’università oggi è sicuramente asservita a meccanismi e regimi di verità che non le appartengono: in particolare parliamo di meccanismi aziendalistici e manageriali, meccanismi sui quali sono basati i corsi di studio e i dipartimenti, sulla base di questa impostazione anche gli studenti e le studentesse. Questo modus operandi viene imposto già alle scuole ma all’università raggiunge la sua quintessenza: viene imposta l’autoimprenditorialità, di conseguenza ci si ritrova in costante competizione con sé stessi e con gli altri».
Quando parliamo di performatività, delle sessioni d’esame come una gara, delle bugie che si raccontano in famiglia, di quali contesti universitari parliamo e dove è più visibile notare queste criticità?
«Sicuramente questo virus della competitività ha frammentato la comunità studentesca: il mio compagno di studi non è appunto un mio compagno, bensì un mio collega, magari anche da guardare con sospetto perché si tratta di una persona che potrebbe scavalcarmi. Anziché pensare che chi ci sta affianco sia una persona con la quale sarebbe interessante e sensato intavolare uno scambio, come dovrebbe effettivamente essere in ambito universitario, viene inculcato il pensiero di chi ci affianca come competitor. Purtroppo bisogna ammettere che a livello studentesco questo modo di ragionare è molto presente, anche i metodi di valutazione sono problematici perché non riescono a cogliere contributi ed intelligenza di una persona che magari non può essere classificata. Questo è un frutto dell’appiattimento del sapere e dei saperi».
Che ne è del ruolo dei docenti?
«I docenti subiscono, come molti componenti subalterne dell’università, questo processo. È anche vero però che le voci dissidenti tra i professori sono sempre più sottotraccia, sempre più flebili. La riforma Gelmini accelerò prepotentemente le dinamiche alle quali assistiamo oggi: sostanzialmente chi insegna all’università oggi applica un meccanismo che vede anche chi riveste un ruolo come quello come quello di una pedina; certo un docente può essere consapevole o meno del suo ruolo di potere e della postura con la quale agisce. Ci sono dei pensieri critici, in questo senso l’università resta fortunatamente una sacca di pensiero critico rispetto a metodi d’insegnamento e di studio. Certo è che convenga molto di più tacere e avallare certi meccanismi, perché sono poi questi meccanismi che consentono l’ingresso di grandi capitale all’interno degli atenei, anche da parte di investitori i cui proventi arrivano da fonti energetiche inquinanti o da armi rivendute a paesi tutt’altro che democratici. Questo è un altro cortocircuito in un paese in cui la torta è sempre più piccola, i fondi statali sono sempre meno e a vincere sono la meritocrazia e la competizione».
Al Sud Italia la retorica della gara e della competizione fa da padrona, ma in una totale assenza di servizi…
«Il cambio di rotta passa per uno scardinamento dell’università come corollario di un sistema produttivo che non funziona più. Il supporto psicologico come servizio offerto dall’università a volte è uno strumento salva vita, inutile negarlo. Il problema è che non c’è la volontà politica di risolvere il problema alla radice. Si decide invece di agire a valle, dotando studenti, lavoratori, soggettività in generale di un adeguato supporto psicologico. Una sofferenza in un contesto come quello formativo è il naturale prodotto di questo apparato: stiamo parlano di giovani, giovanissimi che non hanno gli anticorpi per resistere o per chiedere aiuto. E’ su questo tipo di fragilità che agiscono le logiche di cui stiamo discutendo, certo ci sentiamo ancora peggio quando non è possibile neanche utilizzare appunto questi strumenti palliativi. Di esperimenti ce ne sono stati, la Federico II ad esempio offre dei servizi ma il problema è che non bastano: ad oggi la struttura universitaria ti fa sentire strutturalmente sbagliato e quel poco che gli atenei offrono non è lontanamente sufficiente per dissuadere chicchessia da compiere gesti estremi».
Che ne è del ruolo di organizzazioni e collettivi studenteschi rispetto alla tenuta delle comunità studentesche?
«Senz’altro è necessario individuare il piano di azione nel momento in cui parliamo di soggetti politicamente organizzati. Si sta provando senz’altro a resistere agli urti dell’atomizzazione generalizzata: è necessario ri-significare i luoghi dell’università: bisogna dare vita a momenti di socialità per esempio all’interno dei luoghi dell’università e non sto parlando della condivisione ansiogena dei momenti che precedono l’esame o dello scambio dell’appunto, qualora si trovi ancora qualcuno disposto a condividerlo. Il nostro sindacato studentesco ha dato gli strumenti della condivisione delle arti, della musica, delle serate fatte però all’università. Condividere poesia e musica ci aiuta a vedere chi ci è affianco non come il competitor dell’esame, ma ci aiuta a vedere appunto un nostro compagno in quanto tale. Questi strumenti potrebbero farci riconoscere come comunità, guardandoci negli occhi, vedere il sapere non come qualcosa nel quale semplicemente eccellere ma come uno strumento di scambio reale. Questa è la dinamica che vorremmo si generasse».
Le parole di Cristina parlano di università, di università al sud Italia – che potrebbe quasi essere trattato come un argomento a sé, viste le condizioni nelle quali versano moltissimi atenei del Mezzogiorno – di performatività che molto spesso uccide ma anche di futuro, di strumenti alternativi. La politica non sembra – per ora – essersi presa carico di quello che pare essere a tutti gli effetti il dramma di una generazione. Il Covid, la guerra in Ucraina, l’ecoansia, un crescente bisogno di supporto psicologico ci raccontano di migliaia e migliaia di giovani a cui il mondo è crollato attorno come un castello di carta dalla sera alla mattina, nel pieno degli anni della formazione e della crescita. Che sia questa la sfida non per dare una futura classe dirigente al paese, ma per ricostruirlo da delle fondamenta più umane, quel paese?