Pittura, strade, social. La transmedialità con cui Emanuela Auricchio esprime la sua arte nel progetto artistico di “Cassandra parla” ha radici e alberi a Napoli. «Il napoletano è la chiave», scrive. I suoi dipinti sono opere piane, ma multidimensionali e coloratissime. Con essi, Cassandra diffonde unione, pratica arte, chiama all’appello delle lotte per i diritti umani ancora maltrattati. Femminismo, solidarietà, napoletanità sono le chiavi del suo lavoro e, in un momento storico in cui si è tornato a gridare forte per le proprie battaglie, l’arte non può assentarsi.
Pittrice e street artist, Emanuela Auricchio, classe 1998, si forma presso la bottega di Francesca Strino, poi presso l’Academia de Bellas Artes di Granada e si laurea in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Prosegue gli studi presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna e oggi studia Didattica dell’arte e mediazione del patrimonio artistico.
Cassandra “parla”. Cosa dice, come lo dice e perché è arrivata a così tante persone?
«Avevo l’idea di affiggere per Napoli, ma pensavo che solo i dipinti non fossero abbastanza. Ho lavorato su ciò che avevo quando sono tornata dopo un anno a Bologna, ho ripreso i miei dipinti e un quadernino dove appuntavo delle cose. Inizialmente è stato tutto un’epifania: l’idea, i dipinti, il nome, le frasi, ho fatto delle associazioni, delle ricerche. A ogni dipinto uno slogan. Alcuni sono slogan femministi tradotti in napoletano. Il napoletano è stato una dedica e una ricerca. Napoli è piena di street art in inglese, in italiano, io voglio ridare a Napoli la sua stessa identità, quella che mi ha formata. Sono la prima che la vive in un rapporto di odio amore, ma mi rendo conto che certi progetti nascono per questa città.
Chi ha un buono sguardo le capisce determinate cose, in tutte le lotte. Si sentono proprie delle lotte perché fanno capo a dei sentiti e dei vissuti. Sicuramente possiamo rivederci in tanti e in tante nella lotta alla violenza di genere: 9 donne su 10 ne sono vittime, parliamo di numeroni. Quello che mi auguro è creare un sentito comune: davanti a certe situazioni ci sentiamo tutti quanti umani e viviamo a modo nostro la stessa cosa, altrimenti non si spiegherebbe come migliaia di persone si rivedono nella stessa cosa. Quando ho visto che il progetto piace tanto, mi sono resa conto che non era poi così banale come credevo e ho capito l’esigenza di riconoscersi e divedersi nei vissuti degli altri. Quell’esigenza che ci accomuna e che si dimentica. Tralasciando una questione umana, anche visivamente parlando, nel panorama napoletano Cassandra è qualcosa di diverso. Ho pensato che abbia funzionato perché non vedi il disegno, vedi una cosa nuova, fatta a mano, colorata, c’è stata una commistione stilistica e culturale».
Parlaci di Napoli e dei manifesti. Perché questa scelta?
«Si dice che i muri non parlino, che sono pareti inanimate ed è vero, sono anche la cosa più comune che vediamo tutti i giorni e a me piace dare una nuova vita a queste entità e comunicare con le persone che li guardano. Napoli è ricca di manifesti. È anche un atto politico.
Mi sento sempre un po’ dicotomica su Napoli, soprattutto per il momento che sta vivendo, ha molto più credito anche a livello artistico. Io la vivo molto da cittadina, da pittrice, da persona che si aggira nei vicoletti del centro storico ogni giorno e mi regala tantissimo. Mi piace tanto il fatto di restituirle qualcosa, anche se ora che la vedo molto turistica ne sono gelosa, ho quasi paura. Cassandra a Napoli è stata accolta e restare su Napoli è stata la scelta giusta. È una città che accoglie tanto, nei quartieri mi sono trovata benissimo, c’è un tessuto sociale vivo e prezioso. Poi per il progetto di cassandra mi scrivono spesso anche per creare collaborazioni. Più che casa mia, è il luogo dove mi sento bene. Mi sento protetta, magari le cose vanno male, ma prima o poi funzionano, altrove mi sento un po’ meno».