«Che cosa è, nel mondo umano, la persona? Tutto. Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona? Nulla». Questo ciò che scrive nel suo libro “Persona e memoria” il Professor Giuseppe Limone. Filosofo e poeta contemporaneo, professore di “Filosofia e politica del diritto” presso l’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli, Giuseppe Limone è tra le menti più brillanti del nostro secolo. Insignito di numerosi riconoscimenti tra cui il Prix Emmanuel Mounier per la ricerca sul personalismo, Limone pone alla base dei suoi studi filosofici l’idea di persona. Non solo filosofia, ma anche poesia che egli ritiene essere “sorgiva”: l’unica possibilità che l’uomo ha di rivivere le stesse emozioni anche leggendo un testo scritto secoli prima.
Lei cosa intende quando parla di “poesia sorgiva”?
«Io dico “poesia sorgiva” per dire non una qualificazione di una certa poesia rispetto ad altre poesie. Intendo, invece, che quello che caratterizza la poesia in quanto tale, e mi sembra che non l’abbia mai detto nessuno nei termini in cui lo dico io, sia la sorgività. Cioè la poesia è poesia in quanto sorgività. Mi spiego: così come l’emozione è il vero momento della vita in cui si capisce e sente il “qui e ora”, che è “qui e ora” anche rispetto all’eternità dell’universo. Il “qui e ora”, nel momento in cui viene raccontato, diventa un’altra cosa: diventa ciò che io dicevo del “qui e ora” di tempo fa.
Dunque, la poesia ha il compito difficilissimo, e quasi impossibile, di restituirti il “qui e ora” anche a distanza di trecento anni. Io riesco a capire la poesia e la sento quando leggendo Pindaro, sento quella poesia come sorgente in questo momento: questo è un privilegio che ha solo la poesia. Solo in questo caso è poesia: quando, invece, è semplice celebralità non è poesia; può essere una grande filosofia, ma non è poesia. È una potenza che ha solo il poeta e non sa neanche lui come. La capacità di esprimere linguisticamente il “qui e ora” che resta immutabile nel tempo. Tutti hanno dei momenti poetici, ma non tutti sono poeti perché l’emozione deve diventare lingua, se non diventa lingua non può diventare poesia».
Sotto questo aspetto, come entrano in relazione la poesia e la filosofia?
«La filosofia fa il percorso inverso: non ti restituisce il “qui ed ora”, ma ha bisogno anch’essa dell’emozione e, se non ce l’ha, diventa un mero sillogismo. L’alimento come emozionalità della poesia è all’origine del suo essere poetico; invece, l’alimento dell’emozione sta nella filosofia non all’origine, ma si consolida nel suo pensiero. Per questo filosofia e poesia non sono all’antitesi, ma si incrociano. Si possono trovare testi al contempo poetici e filosofici. C’è un nesso, ma che li lascia comunque indipendenti, ma non separati».
Lei è celebre per la “filosofia sulla persona” e dunque le chiedo qual è il rapporto di questo terzo elemento con gli altri due nominati in precedenza?
«Sulla persona girano parecchie idee fallacee. Non bisogna mai domandarsi “che cos’è la persona?” altrimenti la ridurremo ad un concetto, la persona è il “chi è”. Posto che ci sono tanti “chi è”, quest’ultimo è la sorgente della poesia e della filosofia. Se non c’è la persona non ci possono essere né la poesia né la filosofia».
Lei dice che noi oggi siamo abituati a fotografare la realtà anziché viverla. Ritiene che così facendo, in questo momento, stiamo dimenticando la persona?
«Sì. Noi abbiamo in politica molti simulatori, i quali dicono le cose in cui non credono. La ridicono come la dici tu, solo che loro fanno la foto alla cosa che devono fare. Loro dicono che sono per il “bene comune”, così come dico io, ma in realtà non ci credono. Lo dicono perché debbono fare carriera e traffici di influenze. Le faccio un esempio: fotografando l’acqua, vorrebbero bagnare, ma non si bagna mai nulla. Tutto questo perché non hanno messo mai l’acqua, bensì la foto dell’acqua. La macchina così detta “intelligente” oggi è la suprema affermazione dell’imitazione: perché noi vogliamo imitare la macchina. La macchina simula: quando fa una cosa imita ciò che farebbe un essere umano. La macchina è importante nel momento in cui io capisco che deve essere la mia protesi, non la mia sostituzione.
Tra poco avremo il giudice-macchina intelligente, l’avvocato-macchina intelligente e crederemo che solo per questo fanno meglio di noi: è falso. Per due ragioni: una di carattere logico matematico perché nessun sistema può essere mai completo; due, perché la macchina non conosce e non conoscerà mai la pietà. Quello che vedo nel mondo d’oggi è che continuando a delegare tutto alle macchine, ne diventeremo sudditi. Avremo macchine che costruiscono macchine che costruiscono macchine e crederemo che questo sia il trionfo dell’intelligenza, ma non è vero. Perché l’intelligenza è fatta di emozione, immaginazione, di intelligenza ed empatia: tutte queste cose miscelate».
Quale ritiene che sia stata la sua più grande fonte di ispirazione?
«È difficile rispondere a questa domanda perché la fonte di ispirazione è la vita che ti irrompe dentro e ti dà necessità di esprimerti. Sai che c’è un male/bene oscuro dentro che vuole farsi parola e tu devi dargliela, ma sapendo che ciò è difficile perché ogni parola che dici è sempre insufficiente. Devi pregare per riuscire a trovare un contatto tra questa energia che sta dentro e una lingua che lo dica. Il poeta, ma anche il filosofo, ha bisogno di rendere lingua (o manufatto o arte o scultura) quello che ha dentro. Ha bisogno di dare una forma alle irruzioni che ha all’interno di sé.
Oggi nessun critico della poesia contemporanea crede più nella parola “ispirazione” perché ritiene che sia una cosa vecchia, ma ispirazione significa chiedere al mondo della vita che mi sta dentro, e che è una goccia nell’universo, che riesca a farsi parola. Ogni volta che ognuno si consacra ad una causa che sia la poesia o la filosofia, in quel momento ha una visitazione assoluta. Il problema è che deve essere capace dell’universale e non deve essere semplicemente l’atteggiamento dell’“io sono importante”: bisogna partire sempre stando all’ultimo posto. Questo, però, se si ha il coraggio perché stare all’ultimo posto è difficile e bisogna avere fede che anche se nessuno si accorge di te, per te è importante lo stesso.
Non è importante perché te lo riconoscono, è importante perché tu ritieni che sia vero: è una cosa diversa. Quanti sopportano questo? Pochi. Per cui io credo che il mondo sia fatto soprattutto dalle minoranze intelligenti che si spera diventino contagiose per gli altri».
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE
N°230 – GIUGNO 2022