Il lavoro di Salvatore Mottola e Francesco Del Vecchio (Spring Edizioni) va diritto al cuore. Un’eco che parte da lontano e dal profondo e ti coinvolge e avvolge. È un testo per tutti coloro che sentono ancora fortemente il richiamo alla terra e alla vita contadina. Molto spesso dimentichiamo le nostre origini tramortiti da un eccesso di digitalizzazione. Con questo lavoro è data facoltà ai lettori di staccarsi dalla quotidianità cybernetica e immergersi in quella della tradizione. Di seguito, una sincera e approfondita intervista agli autori.
Sono rimasto incuriosito dal sottotitolo del libro, perché finisce con “dei nostri nonni”. In genere si utilizzano espressioni più generiche e/o riferite al “territorio”. tutto ciò mi ha fatto ipotizzare da subito un legame profondo familiare e in particolare con i vostri nonni. Potreste raccontarcelo?
«Il libro è nato dall’idea di portare a conoscenza dei nostri figli e dei nostri nipoti un mondo che, almeno per noi, si è chiuso nell’ormai lontano 1962. Il titolo originale di quello che doveva restare un libro ristretto all’ambito familiare era: ”La nostra famiglia”. Ci siamo poi resi conto che l’argomento del libro, cioè una serie di episodi, usanze, riti, opinioni ed anche superstizioni molto diffuse nel mondo contadino, dai primi anni del XX secolo agli anni Cinquanta, potevano suscitare l’interesse di un pubblico più vasto.
Così abbiamo epurato il testo da nomi di persona della nostra parentela, rendendolo anche meno sentimentale, ed abbiamo cambiato il titolo. Non si tratta di un’opera frutto di ricerche bibliografiche, cioè compilativa. abbiamo avuto la fortuna, almeno noi la riteniamo tale, di nascere in una famiglia contadina composta da ben quattro generazioni che abitavano nella stessa casa.
Avendo passato la prima infanzia con nonni e bisnonni in quanto i genitori erano impegnati nel lavoro, abbiamo potuto acquisire un bagaglio di conoscenze, di aneddoti, di racconti, alcuni risalenti addirittura alla fine del XIX secolo. In effetti, i veri autori del libro sono i nostri nonni e bisnonni. Da ciò deriva il titolo. Ovviamente, abbiamo arricchito ciò che ci è stato tramandato con le nostre conoscenze di Medicina, Economia e Storia».

La prima parte del testo è certamente legata a ricordi e ricostruzioni personali, mentre la seconda è chiaramente legata a informazioni/racconti “per tutti”. È una cosa voluta oppure è stato uno sviluppo logico? Quindi, come è nata l’idea del libro e come è stata scelta la sequenza dei capitoli.
«I ricordi e le ricostruzioni personali riguardano sia i luoghi, la vita, le vicende familiari, sia ciò che dava contenuto e connotazione a questa vita: il mangiare, le tradizioni, gli strumenti di lavoro e di svago, gli insegnamenti frutto di esperienza e guida per l’agire. Ad esempio, abbiamo sempre mantenuto vivo il ricordo delle ricette tradizionali contadine che preparavano i nostri nonni e i nostri genitori. Inevitabilmente poi, in occasione di circostanze della vita nelle quali ci trovavamo, ci riaffioravano alla mente i proverbi che loro citavano in occasione di eventi analoghi.
C’era sempre un proverbio per ogni evento della vita. Inoltre, i passatempi delle sere d’inverno accanto al camino o per allietare i nipotini erano i “cunti”. Tutti questi aspetti culturali li abbiamo ripresi e riportati nella seconda parte del libro. Proprio per questo riteniamo che la lettura sia interessante, ma anche divertente in alcuni capitoli, per es., in quello dei cunti, o in quello dei giochi dei bambini, dei mestieri e degli attrezzi scomparsi.
Altri capitoli invece sono fonte di riflessione, anche perché sono testimonianze dirette, pulite, di chi ha vissuto la guerra e il periodo fascista. La guerra per fortuna noi non l’abbiamo vissuta. I nostri genitori e nonni invece sì. E ce l’hanno raccontata e ce la raccontavano spesso, sempre come se quei fatti, quegli eventi fossero appena accaduti. Dai loro racconti si capiva che la guerra orribilmente si inserisce, si cala nella vita sociale e produttiva, ne diventa parte integrante.
Inevitabile poi non citare vicende ed aneddoti del periodo fascista, che per ben vent’anni accompagnò la vita dei nostri protagonisti. Sono anch’essi testimonianze di vita vissuta, certamente parziali, ma che – riportate testualmente così come udite dai racconti dei nostri testimoni – ci danno un’idea di come venne vissuto quel periodo della nostra storia.
Non è secondario l’uso del dialetto locale. Solo in tal modo si può rendere il genuino significato di termini ed espressioni. E poi il nostro dialetto locale ha una sua tipicità “altocasertana” che, anche se si inserisce nella famiglia dei dialetti napoletani, se ne differenzia – come in altre parti della Campania e del Mezzogiorno – per delle sue specificità, che sono poi il suo “valore”, rappresentativo dell’identità locale. Abbiamo riportato in dialetto locale diverse parti del libro, in particolare proverbi, i modi di dire, le ricette, traducendo in italiano le parti più incomprensibili per chi non è del luogo.
Da non trascurare infine le appendici; tra queste quella della storia del rinvenimento del c.d. “Mosaico dell’Epifania”, che è esposto al Museo archeologico di Teano. È un esemplare importante, di cui sicuramente non si trova traccia della storia del suo rinvenimento da nessuna parte. Siamo i primi a descriverla, essendone i diretti eredi di chi lo scoprì».
Avete giustamente intitolato un capitolo “mestieri scomparsi”. Anche io credo che sfortunatamente non sarà più possibile vedere all’opera tali lavoratori. Qual è la vostra visione attuale della vostra terra e soprattutto dei nostri giovani?
«Noi siamo nati e vissuti in Terra di Lavoro. Abbiamo vissuto per un certo periodo al Nord dell’Italia. Quando ci chiedevano da dove provenivamo (provincia di Caserta) la risposta era sempre la stessa: “Ah! Un napoletano”. Proviamo un grande rispetto per Napoli ed i napoletani, ma ci teniamo semplicemente a precisare che gli abitanti dell’alto casertano sono diversi per il dialetto, per la mentalità e per i costumi.
Il libro vuole anche essere un omaggio ai contadini della nostra terra – una terra difficile, di povertà e marginale – che sanno affrontare le difficoltà che, a volte, può darci la vita, in modo del tutto particolare. A qualcuno può sembrare inutile parlare di mestieri, quasi inutili, quasi inventati, ma l’abbiamo voluto fare per far conoscere al mondo di oggi le gravi difficoltà che i nostri avi dovevano affrontare e come si armavano di fantasia per “sbarcare il lunario”.
Ai giovani di Terra di Lavoro diciamo di fare il possibile per non abbandonare la nostra terra e di cercarsi un lavoro non lontano dalle loro case. La nostra provincia – specie l’Alto Casertano – è tra le ultime per PIL pro capite ma, se consideriamo le capacità imprenditoriali, è tra le prime. Poi, da noi, troveranno qualcosa che non si trova altrove né si può comprare con denaro, cioè la solidarietà verso i più di deboli, di cui abbiamo voluto fare un affresco col racconto dei mestieri umili praticati dagli ultimi della società.
Da noi non si abbandona mai chi ha difficoltà a procurarsi il necessario per la vita. In conclusione, diciamo: “Fate dei sacrifici, rinunciate pure a qualche cosa di superfluo ma restate dove siete nati. Se i vostri nonni e genitori hanno superato difficoltà che sembrano dure, lo potrete fare pure voi”».
Conoscete la realtà di Informare che ormai vive e sopravvive da quasi 25 anni proprio nel vostro territorio?
«No, non la conoscevamo. Abbiamo avuto modo di conoscere questo notiziario proprio dopo essere stati contattati per l’intervista. Riteniamo che sia uno strumento fondamentale per il nostro territorio, in particolare di quelle parti di esso dove sono più pressanti le emergenze sociali. È un lavoro egregio, un lavoro di impegno sociale quello che svolgete attraverso questo strumento informativo».