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INTERVISTA. Josè Dalì: “Mio padre era una stella cometa”

Tonia Scarano 02/08/2023
Updated 2023/08/02 at 1:29 PM
6 Minuti per la lettura

Josè Dalì è un uomo d’altri tempi: la voce è gentile, sorridente, leggera, lo sguardo vispo. Uno sguardo che sembra noto, perché conserva, in qualche modo, la luce di un artista mondiale e atemporale, di irrealizzabile emulazione: suo padre.

Nasce a Perpignan, in Catalogna, il 17 febbraio 1940, da Salvador Dalì Domenech ed Elena Deluvina Diakonov (nota col nome di Gala). Josè Dalì è un artista, pittore, scultore, scrittore, orafo, ha pubblicato diversi libri come “Dalì sempre Dalì”, “L’altro Dalì” o l’ultima raccolta di poesie “Dedicato a te”. Oggi vive lontano dal trambusto cittadino e gode della sua vita privata e nella natura, insieme a sua moglie e ai suoi amici animali, creando dipinti, sculture e scrivendo, tutto per nessun altro che sé stesso. 

Quando e come ha iniziato a sperimentare l’arte?

«Da bambino scimmiottavo i disegni di mio padre, mi divertivo a ricopiarli. Una volta ero in collegio, ricordo, e trovai una piccola scultura fatta da uno più grande di me, allora iniziai a modellare anch’io. Alla fine, vinsi un premio per la scultura più bella: dei cioccolatini. Ero felice. È anche questo l’arte, per me: un gioco, un’esperienza che vivo liberandomi, anche perché io non mi definisco un artista. L’artista era lui, mio padre, non io. Io mi diverto, ciò che creo resta a me, non vendo le mie opere, mi sorprende anche che mi chiedano ancora delle interviste. Ho vissuto vari periodi artistici, ho sperimentato il Surrealismo e altre forme d’arte, la riproduzione delle tecniche di mio padre. Non mi piace solo dipingere, mi piace scrivere. A volte mi infliggo il dolore di scrivere libri che nessuno leggerà mai».

Come percepisce la digitalizzazione dell’arte e del mondo tutto? 

«Credo che tutta questa digitalizzazione non porti a nulla. L’arte la devi creare con le mani, con il pennello, sporcarti. Oggi è come se fossimo abituati a tutto ciò che vediamo e mi dispiace per le nuove generazioni, perché sembra abbiano molte meno speranze di gioire di un mondo migliore, rispetto a un me ragazzino, per esempio. Vivo fuori città e sono il tipo di persona che dimentica spesso il cellulare. I miei amici lo sanno bene. Mi piace osservare e stare lontano da ciò che si ripete sempre uguale. Alle persone ormai non fa più effetto nulla, per esempio vedere un prato verde o qualsiasi altra cosa, quindi bisogna distaccarsi da questo stato e ricercare le cose e le situazioni, le sensazioni».

Chi è Salvador Dalì per lei? Com’è stato vivere con suo padre?

«A volte era più bambino di me. Lui e mia madre si divertivano a giocare con me come due bambini o a farmi scherzi, a volte a discapito mio, che un bambino lo ero davvero. Come quando entrava in camera mia col volto illuminato da una candela, fingendosi il demonio con i baffi al posto delle corna, o quando si è finto morto. A volte ai miei occhi è stato anche un alieno, una figura incontenibile, il mio compagno di giochi, ma anche un grande artista e non serve che lo dica io. Crescendo ho compreso sempre più chi fosse, da bambino non me ne rendevo conto completamente e ho pian piano realizzato la sua influenza creativa data e lasciata al mondo. Insomma, mio padre era una stella cometa. Sono cresciuto anche in Italia perché da bambino mio padre girava il mondo e non era il caso di portare sempre con sé un bambino. Allora i miei genitori mi affidarono a dei tutori italiani. Anche l’Italia è la mia casa, sì».

Se guardiamo all’immensa eredità artistica lasciata da suo padre, cosa possiamo dire?

«Mio padre è stato un creatore, ha dato al mondo un nuovo modo di creare arte, di sperimentare. Immagino quanti giovani artisti abbia ispirato, quante persone lo ricordano e lo imitano. Oggi si dicono tante cose, si dà spazio a fatti irrilevanti e si perde di vista la vera memoria dell’arte. Ho paura, infatti, che tra una ventina d’anni non esisterà più alcun artista, che la memoria di mio padre sarà dimenticata. Spero si trovi un modo per andare oltre la distruzione a cui sembra siamo destinati, ma non possiamo fare altro che vedere come andrà».

A Roma è parte della corrente dell’Effettismo, di cosa si tratta?

«Sì, ora a Roma sono parte della corrente dell’Effettismo di Franco Fragale, portata avanti da sua figlia Francesca Fragale. Siamo un gruppo di persone che si sono messe insieme perché condividono gli stessi ideali. Vogliamo restituire all’arte il suo valore reale, come dicevo prima per creare arte bisogna inventare e sporcarsi, liberare ciò che si ha dentro».

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