Il 15 luglio del 2020 Mario Paciolla, giornalista e operatore delle Nazioni Unite di 33 anni, viene trovato senza vita a San Vincente del Caguán, in Colombia, dove svolgeva il suo lavoro di funzionario di pace nel dipartimento colombiano di Caquetá. Una storia mai abbastanza conosciuta, quella che ha causato la morte di Mario Paciolla, già operante in loco prima per l’Ong Peace Brigades dal 2016 e poi, dal 2018, per la UN Verification Mission in Colombia, osservatorio di valutazione a supporto del compimento dei rapporti di pace tra il governo colombiano e le Farc-Ep (Forze armate rivoluzionarie colombiane – Ejército del Pueblo).
LE RADICI DI UNA PACE MANCANTE: LA COLOMBIA DE LA VIOLENCIA
La posizione strategica che i territori colombiani rappresentano per l’emisfero sudamericano è terreno fertile per violenti scontri al controllo socioeconomico del paese e delle sue risorse naturali. L’incremento del narcotraffico e della guerriglia, nonché la precarietà di una presenza governativa stabilmente democratica, sfociano nella serie di sanguinosi conflitti interni racchiusi sotto il nome de La Violencia e, in particolare, il dipartimento di Caquetá vede nel “Conflicto armado interno de Colombia del 1964” l’occupazione delle Farc e i conseguenti anni di guerriglie con le forze d’opposizione anticomuniste (Aun). Solo il Conflicto conta 450.000 vittime. Tali politiche di forte impronta militare hanno piegato progressivamente la società civile colombiana, al centro di violenze politico-militari agite da guerriglie, lotta fra partiti e l’assidua presenza di rapporti economici con gli Stati Uniti.
Nel gennaio 2016, con la firma dell’accordo finale di pace tra governo colombiano e Farc-Ep, il Consiglio di Sicurezza ONU attua la Risoluzione 2261, attraverso la quale interviene come osservatore per 12 mesi nel processo di pacificazione e disarmo. Nel settembre 2016, ha inizio la missione ONU in Colombia di cui prende parte Mario Paciolla.
«Prima ancora di parlare di narcotraffico devi dar voce a tutte le persone che lo subiscono» scriveva Mario, attivo anche in progetti come quello della conversione di un accampamento delle Farc in zona di reinserimento sociale attraverso attività come il canottaggio. Quell’anno, ai mondiali di rafting in Australia la nazionale colombiana viene rappresentata da cinque ex-guerriglieri e tre contadini di San Vicente. A lui il compito di documentare attraverso un report dei fatti il disastro del 29 agosto 2019, quando un’operazione militare ordinata dal ministro della Difesa Guillermo Botero bombardò il villaggio di Aguas Claras del Comune di San Vicente. La divulgazione di quel report da parte del direttore della missione ONU, Raúl Rosende al senatore del partito Un (Partito dell’Unità nazionale di centro destra) Roy Barreras, sancì le dimissioni di Botero. La richiesta di trasferimento da parte di Mario Paciolla segue, appunto, l’accaduto che aveva visto coinvolte le istituzioni politiche colombiane.
MARIO PACIOLLA È UN MORTO SUL LAVORO
«È dall’ONU che vogliamo avere notizie» spiega Anna Motta, madre di Mario Paciolla. «L’ONU, in qualche modo, risulta responsabile perché era il datore di lavoro di mio figlio. Mario, in effetti, è un morto sul lavoro e di chiunque siano le responsabilità, la prima è dell’organizzazione per cui lavorava, che non è riuscita a tutelarlo nella vita, né poi ha fatto chiarezza sui fatti».
Da allora l’ONU non ha mai proferito parola? Qual è lo stato attuale delle indagini? «Gli avvocati mantengono assoluto riservo, ci auguriamo che qualcosa abbiano detto o fatto. Escluso il giorno della comunicazione dell’accaduto e il giorno dopo in cui si sono collegati per sapere se avevamo bisogno di un supporto psicologico, abbiamo delegato i nostri avvocati ad avere un contatto con loro, anche per capire se avevano interloquito con la Procura italiana. Probabilmente si saranno interfacciati con la Fiscalía colombiana, la cosa certa è che non si sono mai interfacciati con i nostri avvocati, nonostante siano state fatte diverse richieste sulla cosa. A ottobre c’è stata la richiesta di archiviazione da parte della Procura italiana e dalla Fiscalía colombiana. È chiaro che noi non ci saremo mai, quello di Mario è un omicidio. Ci siamo opposti e speriamo che il giudice prenda in considerazione moltissimi elementi anche in riferimento al referto autoptico fatto in Italia, dove emergono fattori che lasciano ampio spazio all’omicidio. Per noi è molto importante il supporto dei giornalisti che ci aiuteranno».
«Voglio focalizzare l’attenzione sul ruolo che ha avuto l’ambasciata. Non ci dimentichiamo che a 6 ore dalla morte di Mario, l’ONU non aveva neanche avvertito l’ambasciata. Questo secondo il diritto internazionale sono fatti gravissimi. Ogni giorno ci chiediamo come, perché? Purtroppo, non abbiamo risposta. Per noi è importante che si faccia sempre luce su questo caso nella speranza che emerga questa verità, perché per noi è importante prima di tutto dare dignità a questo ragazzo, che ha detto a tutti che stava tornando a Napoli, ha fatto un biglietto, ci ha detto le modalità di come sarebbe tornato, aveva fatto dei gesti, preparare la sua valigia… Oltre a depistaggi completi ci sono una serie di atti che lui aveva compiuto. Questo è un chiaro omicidio, non può essere archiviato. 27 mesi, un caso così complesso: la Procura vuole archiviare questo caso».
È un altro articolo, scritto da Claudia Julieta Duque, giornalista investigativa e amica di Mario, a sottolineare campanelli d’allarme ai quali nessuno sembra, ancora oggi, prestare abbastanza attenzione e che rappresentano, invece, l’anello mancante per un’indagine veritiera e corretta sulla vicenda del giovane giornalista napoletano. «Sebbene l’autopsia colombiana – realizzata il 16 luglio 2020 a Florencia (Caquetá) in presenza del medico della UN Verification Mission Jaime Pedraza Liévano – ha stabilito che la morte di Paciolla era causata da un suicidio», scrive «gli esperti dell’Istituto di Medicina Legale italiano hanno criticato lo stato malmesso del cadavere. La descrizione vaga del solco sul collo e del modo in cui era disposto il lenzuolo che causò l’asfissia, la documentazione fotografica insufficiente, così come la scarsità di dettagli sulle ferite presenti sul corpo: tutto ciò ha reso impossibile ai legali stabilire con assoluta certezza la morte del trentatreenne napoletano» (El Espectador, 18 luglio 2022).
ANNA MOTTA E GIUSEPPE PACIOLLA: LA CREAZIONE DI UNA MEMORIA SOCIALE
«Chi era Mario, i suoi amici lo conoscono. Gli piaceva Napoli» racconta Anna Motta, «però era un cittadino del mondo, un giornalista, un poeta. Quando andava in nuove zone del mondo gli piaceva integrarsi, tant’è vero che amava il ballo. In ogni posto dove andava – un po’ perché si divertiva a ballare, un po’ per integrarsi, per capire al meglio il territorio – ne voleva imparare i balli. Era un viaggiatore che voleva capire quali erano le abitudini, si voleva integrare e questo l’ha fatto anche in Colombia. Lui amava la Colombia, è partito con un grande spirito di consapevolezza, era molto preparato con i suoi studi sui diritti umani e ha creduto veramente che con le sue competenze potesse dare parola a chi non godeva di questo diritto. Vogliamo creare una memoria sociale, perché non esiste solo una verità processuale. Per farlo, raccontiamo la storia di Mario, affinché ci si faccia un’idea di chi era e del perché sia morto».
Cosa possiamo fare per sostenere la causa e chiedere verità e giustizia per Mario Paciolla?
«Sulla pagina del comitato Giustizia per Mario Paciolla si trova la petizione che abbiamo lanciato su Change.org e a cui teniamo particolarmente, perché da qui possiamo trovare una strada per avere un riscontro parlamentare. La seconda è la piattaforma che da qualche mese abbiamo realizzato noi come famiglia, marioveritas.org, da ricercare sulla barra di ricerca. È una piattaforma creata per poter denunciare in forma assolutamente anonima. Per noi è fondamentale che la vita degli altri sia messa a sicuro quindi abbiamo cercato di coinvolgere degli specialisti, degli ingegneri che hanno creato nel massimo della riservatezza. Quello che potevamo fare per garantire il massimo dell’anonimato, abbiamo cercato di farlo. Terza cosa c’è il crowdfunding per la realizzazione di un murales sulla facciata della scuola Elio Vittorini che Mario ha frequentato, ci auguriamo cresca ancora. Con questo murales, per cui abbiamo scelto l’artista Jorit, e attraverso tutte le nostre azioni, speriamo che venga alla luce la verità sulla vicenda di Mario».