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INCHIESTA. Voci dal carcere di Salerno: parlano i detenuti dell’alta sicurezza

Marianna Donadio 09/05/2023
Updated 2023/05/08 at 4:52 PM
7 Minuti per la lettura

Il dibattito sul 41bis riacceso dal caso Cospito e il successo che hanno riscosso le fantasie sulla realtà carceraria raccontate in Mare Fuori stanno riaccendendo i riflettori sul sistema penitenziario. In questo clima abbiamo deciso di ascoltare le voci dei detenuti della sezione ad alta sicurezza della Casa Circondariale “Antonio Caputo” di Salerno, da noi intervistati assieme agli operatori che li assistono, in una visita alla struttura. Sono loro le testimonianze, riportate sopra, che ci raccontano la quotidianità in carcere, la separazione dalle famiglie, la difficoltà ad immaginare un futuro fuori dalle sbarre.

Ma che cos’è l’alta sicurezza e quali detenuti vengono sottoposti a tale regime? Tra i regimi carcerari, l’alta sicurezza è il gradino subito inferiore al 41bis. A questo regime penitenziario sono sottoposti principalmente detenuti con alle spalle reati di associazione, per i quali è dunque previsto un controllo più stretto sui contatti con l’esterno e con gli altri detenuti del carcere stesso. Dai racconti degli intervistati è proprio questo forte distacco dall’esterno a pesare maggiormente sulla loro condizione.
Uno dei detenuti ci racconta la storia del travagliato rapporto con la moglie, con cui tenta di mantenere i contatti nonostante siano entrambi detenuti in alta sicurezza in due istituti diversi, con la possibilità di ottenere un colloquio de visu ogni 5/6 mesi.

Per l’alta sicurezza, infatti, non esistono misure alternative di detenzione e i condannati hanno la possibilità di ottenere una declassificazione della pena solo dopo averne scontato i 2/3, dimostrando di non avere più collegamenti con l’organizzazione criminale a cui appartenevano.
Alle normali limitazioni riguardo ai contatti esterni, negli ultimi anni si sono aggiunte quelle legate al Covid-19, che hanno scatenato numerose proteste nelle carceri campane e non solo. Ѐ proprio dalla sezione di media sicurezza del carcere di Salerno, come ci racconta la Direttrice Rita Romano, che partirono le sommosse nel 2020. «Hanno voluto vederci la mano della camorra, ma non c’era» afferma la Romano, attribuendo quanto accaduto proprio allo stop dei colloqui.

La possibilità di ascoltare queste testimonianze acquista ancora più valore se si considera che coloro che sono sottoposti al regime di alta sicurezza sono spesso impossibilitati a partecipare alle attività sociali e culturali del carcere che li ospita. La Casa Circondariale di Salerno sembra però essere riuscita a portare avanti numerosi progetti di istruzione e reintegrazione nonostante i limiti imposti dalla sicurezza.
«Sono in carcere dal 2015 e ci rimarrò fino al 2033. Devo ringraziare questo Istituto che ci sta dando la possibilità di frequentare la scuola: quest’anno mi diplomerò all’alberghiero» dichiara uno degli intervistati.

«Da loro abbiamo grande rispetto e comprensione – afferma una delle Professoresse che li segue – Purtroppo abbiamo molte restrizioni sulle attrezzature informatiche e questo è un ambiente poco adatto allo studio. Cerchiamo di intervenire sulla motivazione facendo capire loro che possono trovare possibilità lavorative una volta terminata la pena. Ci interfacciamo con tanti giovani che non hanno ancora la terza media, questo ci fa capire quanto la non scolarizzazione incida sulla delinquenza».
Oltre alla possibilità di frequentare i corsi dell’Istituto alberghiero, i detenuti e gli operatori ci raccontano di diversi laboratori, da quello di ceramica a quello per aspiranti pizzaioli. Queste possibilità, tuttavia, non sono all’ordine del giorno in tutte le strutture. La realtà carceraria italiana, specialmente dopo gli scandali riguardo la violentissima repressione delle sommosse durante la pandemia e le non poche morti sospette, è ben lontana dal concetto di rieducazione.

«Il lavoro più difficile per noi – ci spiega una psicologa del carcere – è quello sul senso di responsabilità. Nei reati in cui non c’è una vittima diretta, l’esempio più calzante è lo spaccio: è difficile portare il detenuto a riconoscere l’errore». Ma la strada più efficace, seppur più lunga, resta quella della prevenzione. «Le cause della devianza sono soprattutto sociali – spiega un’educatrice -. Ci sono molti fattori di rischio che rappresentano un campanello d’allarme: la non scolarizzazione, il contesto, la vita in quartieri poco sani dove i ragazzi crescono con un’educazione ed un’etica criminogena. La retorica del “chi collabora è un infame” è quella con cui ci scontriamo più spesso».

Un altro lavoro di prevenzione fondamentale, che troppo spesso le istituzioni sembrano ignorare, è quello che va svolto all’interno delle carceri stesse che, come dimostrato dalle statistiche sulla recidiva, si rivelano troppo spesso una palestra di criminalità. Le stesse statistiche mostrano come la recidiva diminuisca, invece, per i condannati che scontano la pena attraverso misure detentive alternative al carcere. Un esempio è rappresentato dagli istituti a custodia attenuata, che prevedono l’inserimento degli ospiti in attività trattamentali e lavorative, seguiti da un’equipe specializzata e secondo percorsi di reinserimento individualizzati.

La lotta per una pena che rispetti la dignità umana, portata avanti da associazioni come Antigone o da Amnesty International, non riguarda dunque solo i diretti interessati, ma la collettività tutta. Voltaire ce l’aveva detto più di due secoli fa: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. Il carcere è lo specchio della società, il luogo in cui essa rinchiude tutti i suoi fantasmi. La storia di ogni detenuto ci racconta una falla dello Stato stesso, uno Stato che abbandona intere periferie lasciando che il contesto di nascita diventi troppo spesso una condanna a vita.

Deve essere priorità delle istituzioni, dunque, mobilitarsi per riempire nuovamente di significato il concetto di rieducazione, combattendo con ogni mezzo a disposizione lo stigma di paura e vergogna che si nasconde dietro le sbarre.


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