È un tema sociologico che si pone e impone un’analisi sin dalla presenza dell’ uomo moderno o “homo sapiens”, secondo molti studiosi apparso circa 200.000 anni fa e nella sua evoluzione storico-sociologica approda nella nostra epoca.
Per meglio esplicitare il percorso dell’umana specie e il rapporto sociale uomo-donna, bisogna risalire alla società del patriarcato. Il termine patriarcale deriva dal greco “patros” – padre e “arcos”- comando.
Come dire: nella società patriarcale l’uomo o padre detta il suo comando o la sua legge. In epoca moderna le teorie filosofiche del patriarcato sviluppato, di Marx e Engels, possono tradursi nella concezione della società del tempo, dove l’uomo si occupa di approvvigionare di cibo attraverso il lavoro dei campi ed altro, e la donna del lavoro domestico.
È una visione della società, dove il “dominus” incontrastato resta l’uomo capace di prevedere gli eventi e di affrontarli “razionalmente”. Questa “virtù” presente nell’uomo viene concepita, come assente nella donna.
Quindi è, come era, presumibile nell’uomo il comando e nella donna l’ubbidienza. A questo stato, di pura sopravvivenza e di schiavizzazione della donna che comincia a divenire insopportabile, impraticabile, si sovrappone l’ideale del “ben vivere”, Aristotele docet, che richiede un maggiore grado di autosufficienza e di organizzazione sociale.
È un aspetto sociologico che impiega secoli per potersi concretizzare in modo sufficiente, ma non ancora esaustivo in epoca nostrana e che, in una visione etica della società, pur nella sua complessità, è legittimo e naturale. Nonostante i progressi in divenire della società, ancora in alcuni aspetti umani predomina il senso patriarcale nel rapporto uomo-donna. È un retaggio culturale che ci portiamo da secoli nel nostro bagaglio ideologico- comportamentale, se ancora oggi appaiono accese discussioni sulla parità di genere e sul maschilismo imperante nel mondo del lavoro, delle professioni e di tutte le altre categorie sociali e economico – imprenditoriali.
I tanti risultati ottenuti dalla donna e del suo essere protagonista della crescita e sviluppo della nostra società sono serviti a poco per portare all’attenzione della establishment mondiale il merito del mondo femminile.
Purtroppo, ancora oggi, la bilancia delle parità di genere pende dalla parte dell’uomo, nonostante dettati costituzionali elusi e rimossi, come per attestare, nella bieca e cinica visione della civiltà contemporanea, quel principio patriarcale, da cui non si è capaci o non ci si vuole privare.
Nella complessità del rapporto sociale uomo-donna insiste un’altra tematica esistenziale, la famiglia, che si ispira al patriarcato e che investe uno spaccato sociale non totalizzante.
Senza scomodare la psicoanalisi, il punto fondante è la cultura che è il segno, il senso della civiltà che insiste nel rispetto della persona e del rapporto tra conviventi. La famiglia fonde le ragioni dello stare in due, implicando due menti, due pensieri, due modi di essere nel rispetto reciproco. E nel senso del rispetto resta l’esplicitare il proprio pensiero, una “conditio sine qua non” per avere una parità di genere senza vincoli o lacci e laccioli che legano, imbavagliavano la propria libertà esistenziale.
È un segno di meritocrazia che inficiandolo, mina la stessa unione e l’essenza della nostra esistenza e del nostro essere una società civile.
Purtroppo il rapporto uomo-donna, nel segno della civiltà umana, è in parallelo col grado di cultura, più esso è basso, più implode nell’esacerbazione dei toni, nella violenza fisica sino alle estreme conseguenze.
Lo si evince nell’accezione verbale del nostro vivere quotidiano, quando si usa la locuzione “è l’uomo di casa” che ci riporta al “pater familias” di vocazione storico-romana, dove tutto si deve al padre e alle sue decisioni. Le cronache giudiziarie e la lettura di quotidiani atti di brutalità umana esplicitano episodi di schiavismo della donna e di privazione di ogni forma di libertà.
Il rigore e la visione padronale della famiglia spingono “l’uomo di casa” ha domare ogni pulsione della donna sentita come ribellione, atto di non sottomissione al dominus di turno.
È la raffigurazione arcaica del possesso assoluto. È questo sentirsi ”dominante” nella sua esacerbazione dell’essere che spinge a forme di potere opprimente e delirante, oltre ogni forma di rispetto etico della donna e della vita propria e altrui.
Quando la mente e l’animo smarriscono la via maestra del vivere in comunione con un’altra persona, subentra quello stato di passione turbolenta che apre la porta alla follia “d’amore”, che è la scala interrotta della razionalità e dell’agire senza connessioni con la realtà.
L’altrui soggetto viene avvertito come oggetto usante e non pensante e quindi anche sfigurato o soppresso.
In merito a quanto scritto, la storia culturale ci riporta al Catullo che cosi scriveva: “l’amore è follia”. La sua forza irrazionale prende il sopravvento sulla “ratio” e esplode sino a divenire distruttiva, tanto da invertire ogni ordine sociale”.
La stessa dottrina di Lucrezio esplicitava: “l’amore inteso come sentimento, emozione da evitare, perché porta dolore”.
Una visione questa che implicita quel senso estremo dell’amore, come passione esaltante e delirante che rappresenta il passo verso la follia. È il cosiddetto “Dira Cuppedine”, desiderio feroce, brutale, la faccia della medaglia dell’amore assoluto e distruttivo.
Due pensieri storico-culturali di stampo sociologico che viaggiano in parallelo con la nostra epoca e con le implicite tematiche esistenziali e che proiettano elementi di analisi sociologiche che dovrebbero essere introdotti, come riflessioni educative, nel mondo della scuola e della famiglia.
Ciò non è sinora avvenuto perché mai il credo dell’arricchimento socio-culturale trova radice nel mondo dell’insegnamento, né credo avverrà. La crescita di disvalori sta incattivendo e minando il rapporto intersociale uomo-donna e figli-famiglia, perché privati di quegli aspetti etico-comportamentali che sono l’humus di una società civile.
Sono aspetti che solo una educazione civica e un impulso maggiore all’apparato educativo delle coscienze giovanili, possono trovare cittadinanza nella formazione scolastica.
È necessario un maggiore connubio scuola-famiglia in un interscambio valoriale, integrando l’intero ambito familiare nella formazione di una intera generazione di giovani menti che non può essere lasciata, abbandonata tra le maglie diseducative della strada come anime vaganti, facili prede del “vil denaro” delle organizzazioni delinquenziali.
Una società che aspira a divenire modello di crescita del sano sapere non può esimersi dal portare all’attenzione del sistema formativo-scolastico, tematiche essenziali per proiettarsi in un domani virtuoso.
Da queste memorie di menti eccelse, mi porto nell’oggi, dove lo studio ontologico ci consegna il quadro della realtà che insiste in una parità di genere incompiuta.
Passi avanti sono stati fatti, ma ne occorrono altri più incisivi, più includenti per addivenire ad una normalizzazione dei valori in campo in un rapporto intersociale etico tra uomo e donna. È la cultura, il senso civico del vivere insieme, di cui la nostra società è orfana da tempi immemori e che richiede un intervento alto, di spessore da parte di attori istituzionali che devono avvertire la necessità di investire sulla scuola e sulla famiglia.
Ben poco si è fatto e si fa in questa che m’appare essere una società distopica, dove il surreale e l’allegoria vivono in simbiosi con la realtà e dove gli attori istituzionali continuano ad agire, guardando alla società come astrazione dal vivere, dove troneggia il “non pensiero”, il “non essere” entità vitale, viva, ma soldatini, pedine da muovere, manovrare in una teatrale scacchiera di guerriglia umana.
È il pressappochismo della politica a vedere ciò che vuole e non vedere ciò che deve.
di Raffaele Villani