L’immagine arriva sempre per prima, quindi, ho guardato la copertina. Personalmente ho notato subito i differenti colori di smalto sulle unghie. Poi ho letto il titolo e subito dopo sono ritornato sull’immagine. Il sottotitolo (fra tradizioni e rinascite) in verità l’ho scoperto quando ho cominciato proprio a leggere il libro. E’ un fatto di attenzione personale. Per me la lettura di un testo è un impegno serio e fino a che non m ritaglio il tempo giusto per leggerlo tutto d’un fiato, la concentrazione è ancora medio-bassa. Il lavoro, edito da Edizioni Del Faro – Gruppo Editoriale Tangran, è coaudivato da Marilena Ferrante (prefazione) Nanci Savino (correzione bozze) e Americo D’Angelo (immagine di copertina).
L’autrice, Rita di Costanzo, è nata a Santa Maria Capua Vetere nel 1972.Avvocato, sposata e madre di due figli, amante della natura. “Il fil odi perle” è il suo primo romanzo.
Il filo di perle di Rita di Costanzo
La sintesi, come sempre, preferiamo farla citando il testo:
«Sono trascorsi pochi mesi da quando Perla, quarantenne e single… ha perso la madre. La morte dell’unico genitore che con amore l’ha cresciuta in una società puritana e maldicente è solo l’ultimo dei tanti dolori sopportati… Ad aiutarla, è l’amica di sempre, Maria, che la coinvolge in una vacanza in Medio Oriente…».
Sembrerebbe un testo al femminile rivolto ad un pubblico femminile, ma credo che, invece, sia rivolto ad un lettore sensibile e paziente, capace e volenteroso nel seguire il filo che congiunge tutte le vicende narrate. Sono proprio i sensi a scrivere le pagine, tutto sembra tangibile, pur essendo chiaro che ci sono diversi giochi che servono a romanzare i reali eventi. Ci interessa davvero sapere se gli eventi sono reali e quanto viene raccontato? Non credo, se si è sensibili. Il gender non appartiene alle persone sensibili; siamo solo curiosi di capire e sentire se è “vero Amore” quello con la maiuscola e quando si toccano i ruoli di madre, e figlia, ci vuole consapevolezza e coraggio e questo testo ne ha tanto. La prefazione di Marilena Ferrante aiuta tantissimo, bisogna leggerla con attenzione, anche le pause. L’Introduzione l’ho saltata, come spesso faccio, per potermi buttare subito nella lettura e provare a non farmi condizionare; l’ho riletta subito dopo i “ringraziamenti” finali e, pertanto, cara Rita, quando descrivi la nascita dei tuoi figli fai emozionare, come lo fanno molte frasi che hai “voluto” scrivere. Credo che non sarà l’ultima volta che ci incontreremo. Alla prossima.
La dedica iniziale a tua madre mi ha incuriosito ed emozionato. Quanto c’è di personale e quanto di romanzato in questo tuo primo lavoro?
«La dedica a mia madre è stato quasi un atto dovuto. Alle sue presenze e alle sue mancanze devo la donna che sono, a lei devo la mia passione per la scrittura e sempre a lei devo la creazione del romanzo. Quando ero ancora una bambina, a causa di un mio intervento inopportuno in una discussione tra adulti, mia madre mi rimproverò duramente. “Non puoi dire tutto ciò che pensi. Devi imparare a ingoiare le parole”, mi disse. Quel rimprovero si trasformò presto in due mani che mi stringevano la gola perché, obbediente, iniziai a zittire le mie emozioni. Ma più tacevo e più mi sentivo soffocare finché un pomeriggio, durante il catechismo, una mia coetanea mi infastidì in modo particolare. Avevo davanti a me il mio quaderno rosso a quadretti e una matita. Di impulso cominciai a scrivere le parole rabbiose che avrei voluto rivolgerle e che invece da “brava” dovevo ingoiare. Man mano che scrivevo mi resi conto che quella stretta alla gola, in cui l’obbedienza di quei giorni si era trasformata, magicamente si allentava regalandomi un immenso sollievo. A partire da quel momento non ho più smesso di scrivere».
«Sul mio quaderno a quadretti non solo potevo dare libero sfogo a tutti i miei stati d’animo, ma potevo scrivere tutte le parole che volevo, perfino le parolacce. Nessuno mi avrebbe potuto zittire. Scrivere divenne il mio gioco preferito. Lo è stato per tutta la vita. Lo è ancora. Ho iniziato a scrivere “Il filo di perle” dopo la morte improvvisa di mia madre. Scrivere mi ha aiutato a metabolizzare il pesante lutto permettendomi anche di guarire da vecchie ferite. In verità in ogni personaggio del mio romanzo c’è quindi sicuramente una piccola parte di me. Io non sono nessuno di loro eppure sono tutti loro. Attraverso Perla, Rita, Maria, Lizzy, Daniele, Pietro ecc… ho potuto dare voce a buona parte delle emozioni collezionate negli anni, sia per esperienza diretta che attraverso i racconti degli uomini e delle donne che nella vita ho conosciuto. L’immaginazione ha fatto poi il resto».
I riferimenti ai luoghi e agli usi che hai utilizzato sono molto precisi. Perché proprio il Medio Oriente e/o il mondo arabo come sfondo del tuo racconto?
«Io amo e temo il Medio Oriente. Lo amo per i profumi, i colori dei tessuti, le spezie, il suono dei muezzin. Lo temo per i tratti di estremismo e di autentica misoginia che tutti ben conosciamo. La scelta di collocare il romanzo nel Bahrein nasce però da uno studio sull’origine delle perle. Mia nonna materna indossava sempre un filo di perle e profumava di violetta. Mia mamma attribuiva alle perle il noto significato mortifero mentre io, come mia nonna, le ho sempre adorate e le indosso abitualmente. Anni fa, studiando l’origine di questo prezioso a cui sono molto legata, mi sono imbattuta nell’esistenza del “sentiero delle perle” nel Bahrein che oggi è patrimonio dell’Unesco. Ho approfondito l’attività di ricerca delle perle e la cultura dei luoghi in cui la raccolta avviene. Quale ambientazione migliore per il mio romanzo? Al sentiero delle perle, come ben sai, ho dedicato un intero capitolo e sogno un giorno di andarci».
Un tema ricorrente è la trasformazione. Un movimento che sembra avere come obiettivo il “migliorare” o il “migliorarsi”. Non bastava raccontare solo il cambiamento o lo sfuggire a ciò che fa stare male Perla? Essere diversi e/o differenti non è sufficiente? E’ necessario essere “migliori”?
«Perla è il prototipo dell’IO alla ricerca di sé stesso. Emula la madre eppure si congeda da lei e dal contesto in cui vive alla ricerca della sua identità. Nel rapporto madre figlia spesso ci si sente inadeguati. Il genitore diventa il modello migliore da imitare e spesso “la tribù” a cui si appartiene ci forgia (non foggia) e ci sopraffae. Ci vuole tanto coraggio ad allontanarsi dalla zona di comfort. Perla riceve dalla madre il passaporto per l’emancipazione sfidando le maldicenze dei luoghi in cui ha vissuto e congedandosi dai modelli di riferimento femminili non solo si differenzia, cerca di essere migliore o meglio cerca la migliore versione di sé stessa. Non senza paura e attraversando il dolore, Perla riesce a trasformare le convinzioni limitanti, anche di provenienza familiare, in affermazioni positive e trova così il coraggio di rinascere nella sua versione migliore e di cambiare la sua vita. Cercare la migliore versione di sé dovrebbe essere lo scopo di ognuno di noi».
Il titolo dei diversi capitoli, così come la suddivisione, la progressione e il quantitativo di frasi/parole contenute sono, a mio parere, equilibrati e coerenti. Gli ultimi si susseguono secondo il seguente ordine: “L’Abisso” (non a caso numero 13?), “Il vuoto”, “Il matrimonio”, “La verità” e “La Tomba”. Come si sono sviluppati fino all’epilogo?
«Non ti saprei spiegare lo sviluppo esatto dei capitoli. Sono partita da un ricordo e di lì ho tracciato la storia mescolando aneddoti, tradizioni, emozioni al risultato delle mie ricerche e alla fantasia. La penna scorreva da sé e i personaggi, nei loro punti di forza e nelle loro debolezze, sono apparsi quasi senza che me ne accorgessi. Le idee si sono rincorse e le parole si sono allineate come perle su un filo. Ho deciso di attribuire un titolo ai vari capitoli facendomi suggerire dall’emozione più forte che provavo rileggendo. Così certamente è avvenuto anche per il capitolo 13 intitolato “L’abisso”. Un titolo scelto a caso o forse, chissà, come direbbe Daniele, “nulla è a caso”».