In un film di Gianni Francolini “Ferdinando I Re di Napoli” del 1959 Eduardo (Pulcinella) sosteneva che le canzoni non si componevano. Stavano nell’aria, sotto una pietra, in un cespuglio o appoggiate su un balcone. L’autore doveva “limitarsi” a scoprirle e rivelarle agli altri. Questo era il canzonettiere. Di Giacomo, Modugno, Brel, Bacharach hanno fatto questo. “Era de maggio” scoperta in riva al mare, “Guapparia” aleggiava nei vicoli del Rione Sanità, “O Sole mio” fu scoperta in Ucraina a Odessa, aleggiava in un’alba sul Mar Nero, il sole di Napoli era passato di lì e gli era cascata dalla tasca. Come nella scultura Michelangelo riteneva che l’artista doveva “solo” eliminare le parti superflue. L’opera era già nel marmo.
Non tutte. Vi sono delle canzoni “che scappano all’improvviso” come un bisogno primario. Una pipì. Un dolore di stomaco. La voglia di schiacciare un brufolo o un comedone. Non sono nell’aria, sono dentro, vogliono uscire. Non le riesci a contenere. Se l’autore non è bravo soffre tanto. Il mal d’artista. Se incontrate un poeta o un musicista con il volto scuro, che va di fretta e semmai non vi guarda neanche in faccia al passaggio. Non è maleducato. Gli scappa l’estro. Non lo contiene. Eh…eh.. è così! Che vuoi fare? Gli scappa.
Così è Carte da decifrare composta da Ivano Fossati mentre stava registrando nel 1993 i 2 album dal vivo. L’unico inedito. La canzone, 13 anni dopo, fu inserita “ufficialmente” nell’album “Ho sognato una strada” (2006).
Mancava una mezz’oretta all’inizio del concerto al Teatro Ponchielli di Cremona. Ad Ivano gli “scappava”. Aveva la “necessità”. Fissare su carta o legno l’amore sfuggente, quello che lo tieni in mano e poi et voilà non c’è più… puff… sparito… andato via. Batteva i piedi per terra, con il calcagno, si toccava la pancia con la mano destra e con la sinistra scapigliava. Una sofferenza anche a vederlo.
I collaboratori di scena, musicisti, elettricisti e inservienti vari, imbarazzati si guardavano intorno cercando di far finta di niente. Poi cominciarono a guardarsi tra di loro e a quel punto Mario Arcari, uomo dei fiati, fece segno al batterista Elio Rivagli di avvertire Beppe Quirici, che era anche il produttore artistico. Fu chiamato non per tale ruolo. Quirici suonava il basso ed ogni volta che eseguiva una scala armonica Fossati batteva la testa al muro con il rischio di farsi male. Al Ponchielli i muri erano pieni di chiodi che servivano di supporto a fili o a sostenere quadri elettrici. Quirici, era genovese, ma stranamente gli uscirono delle parole in napoletano come James Senese ad un concerto dei Napoli Centrale.
«Ivá? …Ivá?… I-va-no, te siente buono?» «Mannaggi’a Morte fetente!», fu chiaro Fossati.
A questo punto facendo leva sul muro, giro la testa in direzione di Beppe: «Stonghe buono, ma tengo ‘na cosa ‘ncuorpe che vo ascì ma nun ghiesce. Saglie e scénne. ‘Na canzona ‘ncopp’a na femmene che nun trova riciette e fa ‘mpazzi ‘o nammurato. Stu povero cristo – ricominciò dopo una tirata d’aria ai polmoni – nun sape comme addà mettere nomme. A vulesse spara, le vulesse da l’ostia».
«L’ostia? Comm’a nu prevete?» fu lo stupore dell’interruzione di Quirici. «Si, nu prevete!” confermò Ivano “E po che fà? Arrobba (la deruba), accire…» «Nzomma sta femmene è ‘na granda…» accenno ad intervenire Quirici ma il suo voleva essere lenimento al dolore. Non aveva idee chiare su quello che gli diceva il maestro. «No, isso (lui) pe essa (lei) se facess’a accidere pecché essa è l’ammore ca isso nun ha maje saputo … – gli mancavano e le cercava queste benedette parole – …leggere… capì… Isse è rimasto ‘mprussionato e mò é n’at’omme. Jesse facennolo suffrì ‘a cagnate, ha fatto addeventa n’ommo buono meglio ‘e primme. Pecché isse mo sapè leggere l’ammore e si ‘o sape leggere ‘o sape pure scrivere, e si ‘o sape scrivere mo ‘e nammurato d’ammore e mò tutti e duje so pronti. E studiente so addeventate prufessori d’ammore. E chiste ‘e ammore overo».
A queste parole gli assembrati si tranquillizzarono: il concerto non era a rischio. Non vi erano problemi di prostata e danni non erano stati fatti dal pranzo a base di “turtei”, tortellini cremaschi con farcitura di cedro candito, amaretti scuri, uvetta, mostaccino, formaggio grattugiato e noce moscata. «Mannaggi’a Morte ‘nfama!», anche questa volta Fossati fu chiaro «Isso mo‘ sape pure scrivere, è addeventate maestr’ammore e io nun trovo quattro parole fetente…»
Quirici a completare il discorso che Fossati probabilmente faceva con sé stesso per analizzare la situazione poetica: “Ivá, è comme si ce stesse ‘na mappa d’o tesoro, svelato ‘o segreto se trova ‘o tesoro. E mo’ ‘e carte so state capite…. ‘e carte so state decifrate.“
Lo stupore di un “Oohhhh” li travolse. Nel frattempo il pubblico aveva da sè aperto il sipario ed, insieme agli altri musicisti ed operanti, assistito al dialogo. Quello stupore li destò e Beppe non poté, fare a meno di domandare a Fossati: «Ivano, scusa ma perché parli in napoletano se non hai scritto nemmeno una canzone in quella lingua?»
Il pubblico guardò i due in silenzio. Tra questi un sessantenne che lavorava alla Banca d’Italia esclamò “E sarebbe ora”. «Sshhhh, Schweigen!» una voce dall’altra parte della platea. E lui: «Scusa Beppe, puoi parlare in napoletano tu è perché io no? Che so Pasquale io? Io sono Ivano Fossati». Allora una bambina piccola piccola e senza età si avvicinò e gli chiese «Questa canzone è per me?»
«Certo! – rispose entusiasta Fossati – Ohi né, e tu comme te chiamme?» «GIOVANNA» rispose.
Il concerto iniziò con CARTE DA DECIFRARE.
Tratto da Informare n° 160 Agosto 2016