Non ci si poteva aspettare altro da Sorrentino. È stata la mano di Dio è un film eccezionale. Il motivo non è da ricercare in una trama estremamente fantasiosa o particolare ma nel modo in cui quest’ultima viene sviscerata.
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Sarà infatti la naturalezza e la credibilità della regia Sorrentiniana a tenervi incollati allo schermo. Il film, in sé, può essere inteso come un perfetto arco ascendente di crescita di un singolo personaggio. Si parte da Fabietto e si arriva a Fabio.L’opera è tranquillamente e palesemente divisibile in due macrofasi: il prima e il dopo la morte dei genitori del protagonista (interpretati da Toni Servillo e Teresa Saponangelo).Fabio (Filippo Scotti) non è un ragazzo che ce la fa da solo, non potrebbe farcela, la sua “fortuna” sono i personaggi (splendidi comprimari) che gli gravitano intorno. Questi ultimi, nel loro microclima narrativo, assumono sempre un enorme peso sulla coscienza e sulla crescita del protagonista.Lo fanno crescere sotto aspetti nettamente diversi eppure paradossalmente simili. Abbiamo zia Patrizia (Luisa Ranieri), che contribuisce più di tutte allo sviluppo sessuale ed emotivo di Fabio. Lo fa probabilmente in maniera inconsapevole, semplicemente esistendo così com’è, senza sforzo d’ipocrisia. C’è poi Armando, un ragazzo che con Fabietto non ha nulla in comune se non la passione per il Napoli e per Maradona (ma sarebbe come accomunare due soggetti diversi solo per la religione comune).Armando è un contrabbandiere, una persona violenta, un ignorante, ma talmente vero che il giovane Schisa non può fare altro che farsi trascinare da lui. È importante citare anche la baronessa, una donna anziana e altezzosa che vive nell’appartamento sopra Fabio.Quest’ultima è un personaggio dai tratti estremamente ricchi, inizialmente non possiamo fare a meno di odiarla, in seguito ameremo a dismisura il suo gesto di profonda solidarietà per il luttuoso protagonista.Parlando della fotografia, si potrebbe dire che ogni frame può essere rappresentato come una magnifica foto a sé stante. Sapientissimo l’uso del colore, che non stona mai, che rimane sempre cooprotagonista insieme agli attori.È da notare anche il distacco tra le due sopracitate macrofasi, prima della morte i colori risultano caldi, vivaci, accesi (vedi la scena del pranzo di famiglia o il bagno al mare); dopo la morte tutto si tinge di scuro, anche gli eventi più lieti (vedi la vacanza a Stromboli).Sulle musiche rimane poco da dire, sono ben integrate, mai invadenti. Desidererete molto sentire insieme a Fabio quello che proviene dal suo Walkman, sarete purtroppo accontentati solo durante i titoli di coda quando, insieme al giovane, ascolterete Napule è di Pino Daniele.È da notare infine l’enorme sforzo storiografico da parte di Sorrentino, che vi farà piombare in degli anni ’80 napoletani estremamente credibili e vivibili, basterà fare caso al parcheggio di Piazza Plebiscito che ormai non esiste più.Un ritorno al passato che ha come finalità anche quella di rievocare una Napoli mistica e immaginifica di miti e leggende; l’aspetto propriamente napoletano del panteismo, ovvero ogni cosa ha un’anima, che in realtà affonda le sue radici nella cultura greca, è rappresentato dalla vivacità e la devozione con cui le figure di San Gennaro, del munaciello e di Maradona vengono interpretate.Molteplici inoltre sono anche i riferimenti al classico cinema italiano delle pellicole felliniane, attraverso le quali Fabietto matura un vero e proprio voyeurismo cinematografico verso la realtà.Insomma, è assolutamente necessario recuperare È stata la mano di Dio, disponibile su Netflix e nelle sale cinematografiche, un film autobiografico pieno d’amore verso Napoli e l’arte che segna un grande ritorno nel cinema post-covid.
Sarà infatti la naturalezza e la credibilità della regia Sorrentiniana a tenervi incollati allo schermo. Il film, in sé, può essere inteso come un perfetto arco ascendente di crescita di un singolo personaggio. Si parte da Fabietto e si arriva a Fabio.
L’opera è tranquillamente e palesemente divisibile in due macrofasi: il prima e il dopo la morte dei genitori del protagonista (interpretati da Toni Servillo e Teresa Saponangelo).
Fabio (Filippo Scotti) non è un ragazzo che ce la fa da solo, non potrebbe farcela, la sua “fortuna” sono i personaggi (splendidi comprimari) che gli gravitano intorno. Questi ultimi, nel loro microclima narrativo, assumono sempre un enorme peso sulla coscienza e sulla crescita del protagonista.
Lo fanno crescere sotto aspetti nettamente diversi eppure paradossalmente simili. Abbiamo zia Patrizia (Luisa Ranieri), che contribuisce più di tutte allo sviluppo sessuale ed emotivo di Fabio. Lo fa probabilmente in maniera inconsapevole, semplicemente esistendo così com’è, senza sforzo d’ipocrisia. C’è poi Armando, un ragazzo che con Fabietto non ha nulla in comune se non la passione per il Napoli e per Maradona (ma sarebbe come accomunare due soggetti diversi solo per la religione comune).
Armando è un contrabbandiere, una persona violenta, un ignorante, ma talmente vero che il giovane Schisa non può fare altro che farsi trascinare da lui. È importante citare anche la baronessa, una donna anziana e altezzosa che vive nell’appartamento sopra Fabio.
Quest’ultima è un personaggio dai tratti estremamente ricchi, inizialmente non possiamo fare a meno di odiarla, in seguito ameremo a dismisura il suo gesto di profonda solidarietà per il luttuoso protagonista.
Parlando della fotografia, si potrebbe dire che ogni frame può essere rappresentato come una magnifica foto a sé stante. Sapientissimo l’uso del colore, che non stona mai, che rimane sempre cooprotagonista insieme agli attori.
È da notare anche il distacco tra le due sopracitate macrofasi, prima della morte i colori risultano caldi, vivaci, accesi (vedi la scena del pranzo di famiglia o il bagno al mare); dopo la morte tutto si tinge di scuro, anche gli eventi più lieti (vedi la vacanza a Stromboli).
Sulle musiche rimane poco da dire, sono ben integrate, mai invadenti. Desidererete molto sentire insieme a Fabio quello che proviene dal suo Walkman, sarete purtroppo accontentati solo durante i titoli di coda quando, insieme al giovane, ascolterete Napule è di Pino Daniele.
È da notare infine l’enorme sforzo storiografico da parte di Sorrentino, che vi farà piombare in degli anni ’80 napoletani estremamente credibili e vivibili, basterà fare caso al parcheggio di Piazza Plebiscito che ormai non esiste più.
Un ritorno al passato che ha come finalità anche quella di rievocare una Napoli mistica e immaginifica di miti e leggende; l’aspetto propriamente napoletano del panteismo, ovvero ogni cosa ha un’anima, che in realtà affonda le sue radici nella cultura greca, è rappresentato dalla vivacità e la devozione con cui le figure di San Gennaro, del munaciello e di Maradona vengono interpretate.
Molteplici inoltre sono anche i riferimenti al classico cinema italiano delle pellicole felliniane, attraverso le quali Fabietto matura un vero e proprio voyeurismo cinematografico verso la realtà.
Insomma, è assolutamente necessario recuperare È stata la mano di Dio, disponibile su Netflix e nelle sale cinematografiche, un film autobiografico pieno d’amore verso Napoli e l’arte che segna un grande ritorno nel cinema post-covid.
di Valeria Marchese e Giuseppe Spada