La ricerca ha trascurato fino agli ultimi tempi le difficoltà che si trovano ad affrontare le donne migranti, responsabili sia come figlie che come madri. Il progetto migratorio di un individuo dipende da una serie di fattori: l’età, il paese di provenienza, il grado d’istruzione, le risorse economiche al momento della partenza. C’è poi il discorso del genere, un aspetto che per lungo tempo i migration studies non hanno tenuto in considerazione. Ciò è accaduto perché erano condotti da studiosi uomini che hanno assunto il proprio punto di vista come lente attraverso cui analizzare la realtà.
La femminilizzazione dei flussi: una nuova realtà
Negli anni 90 i flussi migratori hanno subito una vera e propria femminilizzazione, e questo dato non ha più potuto essere omesso. Per prima cosa, una differenza da sottolineare è che le donne migranti hanno iniziato a ricoprire nuovi ruoli lavorativi, tendenzialmente legati alla cura e molto differenti da quelli scelti fino a quel momento dagli uomini, tradizionalmente più legati alla forza (soprattutto all’edilizia e ai lavori pesanti legati al primario). Donne provenienti dall’Est Europa, dal Sud America e dall’Africa hanno iniziato a trovare lavoro come badanti, baby-sitter e domestiche. Se da un lato le donne locali hanno avuto più tempo per la propria vita privata e lavorativa, dall’altro le migranti hanno raggiunto un’indipendenza economica inimmaginabile nei loro paesi.
Queste donne si trovano spesso a mettere in atto dei lavori di cura retribuiti per i propri datori di lavoro, ma devono anche metterli in atto per la propria famiglia. È piuttosto facile accudire i membri vicini, generalmente figli e marito, come fare invece per quanto riguarda la parte di famiglia che rimane nel paese di provenienza? Tendenzialmente si mandano aiuti di tipo economico e materiale.
Ecco le risposte di alcune donne che hanno acconsentito a rispondere a delle domande circa la propria esperienza.
La famiglia lontana: il legame con la tradizione delle donne migranti
Non poter parlare la propria lingua, non poter celebrare alcune usanze, non poter partecipare al processo di crescita collettiva del nucleo familiare sono un duro colpo per i migranti. Per le donne, nello specifico, la lontananza viene spesso vista come la colpa di non stare adempiendo alle proprie responsabilità di donna nei confronti della famiglia. Allo stesso tempo, però, guadagnano un’indipendenza economica prima impensabile. Non è azzardato parlare di un vero e proprio empowerment. P. afferma infatti che “noi persone che migriamo lo facciamo per poter aiutare la nostra famiglia, che siano i genitori o i figli”.
La famiglia vicina: l’educazione dei figli
Tra le responsabilità di una madre migrante c’è la crescita e l’educazione dei propri figli, affrontata da sola, con il proprio marito o in un nucleo alternativo a seconda del caso. E, ovviamente, nell’educazione rientra anche l’insegnamento delle tradizioni, della storia e delle arti del paese di provenienza. A tal proposito parla S., dicendo che “se anche noi proviamo a parlargli in alcune lingue nostre africane o anche dialetti, i nostri figli cercano di esprimersi sempre in italiano. O addirittura quando gli cuciniamo i nostri piatti tipici, non gli piacciono perché non sono abituati ai sapori.”
Le donne migranti: una vita di sacrificio
Uno dei motivi per cui ho condotto queste interviste è che avevo la sensazione che il discorso sulla migrazione non si soffermasse abbastanza sulle conseguenze del ruolo familiare della madre e sulle conseguenze di genere. Ricoprono un ruolo così importante che porta spesso ad una vera e propria iper-responsabilizzazione di questi individui. Non c’è spazio per i loro desideri o i loro bisogni. Le parole di A., che hanno ispirato l’intera riflessione, sono significative. “Quando una ha figlio non ha spazio per se stessa, perché vive per loro, quale spazio per me? Non esiste“.