Quello della tortura è un concetto che, pur collegandosi a svariate modalità pratiche, può essere spiegato in maniera generale attraverso la definizione fornita dalla Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti (la cd. CAT) che recita: «Si definisce tortura qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o di esercitare pressioni su di lei o su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su qualsiasi forma di discriminazione».
Le origini di tale pratica sono lontanissime: le prime testimonianze risalgono all’antico Egitto, ma fu con i Greci, prima, e con i Romani, poi, che la tortura fu “istituzionalizzata” (infatti la parola “tortura” deriva dal latino “torquere”, ossia torcere il corpo), divenendo un vero e proprio strumento giudiziario, dal momento che la confessione era necessaria nel diritto romano per formulare una condanna per la maggior parte dei reati. Nel Medioevo la tortura raggiunse il suo massimo utilizzo con la Santa Inquisizione. Il quadro culturale iniziò a mutare in maniera sostanziale solo con l’Illuminismo e, nonostante spesso venga sottovalutato, il pensatore che tra i primi condannò tali trattamenti degradanti fu proprio un italiano, Cesare Beccaria, autore del brillante trattato Dei delitti e delle pene (1764).
I pensieri del Beccaria furono, però, trasfusi nel codice giuridico di un altro paese, la Prussia che fu il primo nella storia a ripudiare la tortura. Ci sarà da attendere la fine della Seconda Guerra Mondiale affinché nello scenario internazionale si pervenga ad una condanna di respiro universalistico della tortura: nel 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’art 5, vietandola, include la tortura tra i crimini internazionali. A seguire diverse carte internazionali hanno confermato e corroborato tale principio: la Convenzione di Vienna del 1949 e la CEDU (1950), il già citato CAT del 1984, lo Statuto di Roma del 1998 (istitutivo della Corte Penale Internazionale), giungendo fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000. Potrà sembrare paradossale ma, nonostante questo vasto universo di dichiarazioni internazionali, nonostante il Beccaria che urlava a gran voce la sua opposizione alla tortura già nel XVIII secolo, l’Italia includerà formalmente il divieto di tortura nel proprio codice penale- articolo 613-bis- solo nel 2017 con la legge del 14 luglio n.110, a seguito di un’aspra condanna della Corte EDU di Strasburgo successiva alla condotta tenuta dalle forze dell’ordine in occasione dell’irruzione nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001.
La perdurante inadempienza del legislatore ha manifestato i suoi più drammatici risvolti ogniqualvolta si è tradotta nella sostanziale impunità di chi si è macchiato di comportamenti riconducibili alla fattispecie tortura: lo spettro di essa è aleggiato anche sulle morti di Federico Aldrovandi e Giuseppe Uva, ma i loro processi, in mancanza di una norma penale ad hoc, non hanno dedicato alla circostanza adeguata attenzione. Probabilmente anche la vicenda di Stefano Cucchi sembra integrare la fattispecie ma nel corso del processo gli imputati sono stati chiamati a rispondere solo dell’accusa di omicidio preterintenzionale.
Il primo grande processo che potrebbe veder contestato il reato di tortura è quello per le violenze avvenute il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, di cui l’udienza preliminare tenutasi lo scorso 14 Dicembre 2021 a carico di 108 imputati ha dato un assaggio. La questione, per numeri e per la gravità dei fatti commessi, sembra prospettarsi come un maxiprocesso che potremmo definire storico.
Spostando il focus sullo scenario internazionale non possiamo evitare di riferirci al conflitto russo-ucraino cui, a differenza degli altri, stiamo assistendo, nell’era della digitalizzazione, in prima persona dietro i nostri schermi: virali sono centinaia di video diffusi dagli stessi soldati, ucraini o russi che siano, in cui si vedono prigionieri di guerra che piangono, implorano di tornare a casa dichiarandosi sconfitti e spaventati, con lo sguardo perso e il viso distrutto. La veridicità di tali affermazioni è sicuramente opinabile e il dubbio che siano l’esito di pressioni psicologiche e di torture di altro genere non può che essere fondato. Sulle aberrazioni disumane perpetuate dagli inizi di questo conflitto (2014) si è concentrato il lavoro della ONG “Costa pacifica” che, nel corso di un’indagine durata mesi, ha raccolto sufficienti prove di crimini contro l’umanità (tra cui omicidi e torture di ogni genere) commessi nella regione del Donbass ad opera di entrambi gli schieramenti. L’autore del rapporto, l’avvocato Knyrov, ha sottolineato che le indagini di questo genere sono fortemente ostacolate dalla lacunosa legislazione ucraina che difetta di una previsione efficace. Oggi la tortura dispone di strumenti ingegnosi utilizzati in nome di un interesse superiore: stanare criminali, punire o far confessare colpevoli di delitti, intimidire i nemici. Un male necessario? La storia (e la scienza) dicono di no. Eppure, l’uomo è ben lontano, purtroppo, dall’averlo compreso.
di Mariella Fiorentino e Bendetta Guida
TRATTO DA MAGAZINE INFORMARE
N°228 – APRILE 2022