Chest’è a’ mano…
Una formula semplice, di presentazione, un’esclamazione che invita i commensali ad osservare attentamente la mano che sta per compiere un destino, scrivere una storia. Questo folcloristico incipit, a momenti, potete ascoltarlo dovunque: basterà passeggiare nei vicoli, quelli veri, stretti, dove le mura sono coperte da lenzuola e panni “spasi”, avvicinarsi ad una finestra e godersi lo spettacolo. Se la tombola avesse un viso sarebbe, senza dubbio, quello delle nostre nonne, incorniciato in uno scialle di cinica dolcezza che sembra voler abbracciare tutti coloro che vogliono accomodarsi al tavolo. Perché la tombola non esclude, non è razzista e non conosce omofobia. No, “omofobia” è un termine che non riuscirebbe nemmeno a pronunciare, “tropp’ fiorentin”! Non è un caso il fatto che, nella miglior tradizione, la mano più esperta per girare il panariello era quella dei “femminelli”, personaggi vivaci, colorati, strettamente radicati nel popolino dei bassi e dei caffè al di fuori di questi.
La storia
Questo gioco non può nascere da grandi studi filosofici sulla realtà esistenzialista e la dogmatica ragion d’essere del mondo occidentale. Non può nascere da attente riflessioni fenomeniche, basate sull’acuta osservazione scientifica. Questo gioco nasce da un litigio. 1734, Carlo di Borbone, re di Napoli, vuole rendere pubblico il gioco del lotto per sfavorire la fioritura del gioco clandestino, contro l’opposizione ecclesiastica per motivi dissacranti di padre Gregorio Maria Rocco. Nel miglior stile compromissorio del monarca si giunge ad un accordo: il lotto è pubblico, ma non si gioca nelle festività natalizie. Le famiglie napoletane agirono di conseguenza, creandosi un proprio gioco da tavolo, in piena simulazione dell’estrazione. Al di là dell’origine politica, popolarmente, questo gioco, affonda le proprie radici nella dominazione saracena del ‘500, i quali si svagavano puntando su numeri pescati a caso da un’ampolla.
Tra sacro e profano
Diciamo che padre Gregorio Maria Rocco, per il suo credo, non aveva tutti i torti. Alla base della cultura partenopea “sacro e profano” si mescolano continuamente, dando vita a credenze, riti e misteri. Prima di scendere nel profondo dei significati e ripescare la storia saracena, bisogna delineare quella che è la sessualità della tombola. Esatto, la tombola è un gioco intriso di erotismo e passione verso l’aspetto erotico della vita, quello più godereccio. Senza dubbio, al di là dell’origine saracena, questo taglio sociale della tombola deriva dal rapporto greco/romani che i cittadini avevano con la sessualità, sotto il punto di vista della fertilità umana e della terra. Tre numeri a caso: 6, 28 e 29. Prima andate a vedere cosa significano e poi ve li giocate (nel caso doveste vincere non dimenticatevi del giornalista che ve li ha scritti, ndr). Fondamentale è il profondo significato che celano questi numeri. Dai saraceni non ereditammo solamente il gioco, ma anche la cabala. Questo libro, che in arabo significa “libro dei sogni”, altro non è che un vocabolario fatto di associazioni immagini-numeri corrispondenti. Lo ereditiamo dagli arabi ma decidiamo di cambiarne il nome in “smorfia”. Certo, solo il titolo rimanda alla simpatia partenopea ma, in realtà, altro non è che lo storpiamento del nome Morfeo, divinità classica del sonno e dei sogni. Da qui arrivano i significati da dare ai numeri, sia sul tabellone che nelle parole di un nostro parente defunto che viene a trovarci in sogno. Come per ogni mattonella, ogni usanza, ogni mito, anche per la tombola ci vorrebbe un’enciclopedia ad hoc per spiegarla e svelarne tutti i misteri. Potrei farlo anche io… ma devo andare, sennò iniziano senza di me.
…e chist è ‘o cul d’o panaro!
Tratto da Informare n° 176 Dicembre 2017