La Campania, ed in particolare Napoli, sono terre di sole, di mare, di cultura e fin dall’antichità si sono distinte per il loro vasto patrimonio culinario, ricco di prelibatezze uniche al mondo. La cucina napoletana è una cosa sacra: le strade e ogni vicolo di questa città sono ricolme di profumi, sapori, odori, che sanno di tradizione e passione innata. Con l’avvento della globalizzazione e dei grandi marchi, la cucina tradizionale ha iniziato a perdere il suo appeal salvo poi riscoprirlo nella seconda parte del Novecento grazie anche al valore dei prodotti che andavano a comporre la famosa dieta mediterranea, ad oggi patrimonio dell’UNESCO. Con i suoi piatti tipici, la cucina campana è famosa in tutto il mondo e costituisce un patrimonio culinario unico e antico che si tramanda da secoli. Facciamo quindi un salto indietro nel tempo e riviviamolo.
La storia della Cucina Napoletana
Florio Agnico, nella sua opera su Tito Livio, afferma che “non solamente d’Italia, ma di tutto il mondo la più bella provincia è la Campania, perché in nessun’altra parte il cielo è più temperato, fioriscono due volte gli alberi e nessun altro territorio è più fertile”. La cucina italiana, a proposito, ovunque magnificata e da tutti invidiata, deve la sua celebrità soprattutto alla pizza e agli spaghetti, tipici prodotti dell’arte culinaria partenopea. La nostra cucina, come del resto un po’ tutta la nostra cultura, ha dunque le sue radici nella Neapolis greco-romana. Questi popoli accompagnavano i loro piatti con il vino pregiato proveniente dalla Campania Felix, ovvero da paesi come Capua, Sorrento e Salerno. Alle dominazioni antiche si fa risalire un prodotto basilare, ancora oggi molto utilizzato, ossia la colatura di alici della baia di Cetara lungo la costiera Amalfitana. Al Cinquecento, invece, si fa risalire il successo della pasta, in quanto con l’avvento della povertà tra la plebe e delle carestie era lecito fare uso di pietanze che potessero essere conservate a lungo, trasformando i napoletani da mangia foglie a “mangia maccheroni”.
Curiosità: le contaminazioni francesi
Tra Settecento e Ottocento, durante l’Illuminismo e la dominazione francese, l’influenza d’oltralpe è evidentissima nella cucina partenopea tant’è che il suo vocabolario culinario si arricchisce di innumerevoli francesismi, che si sono concretizzati in piatti tipici della cucina partenopea:
- Il sourate, piatto a base di riso al quale i napoletani aggiunsero piselli, formaggi e salumi, divenne “o’ sartù.”
- Il “gateau mariage”, nella cucina francese indicava la torta nuziale a multipiano; del “gattò” a napoli conserviamo solo la forma rotonda ma diventò un rustico farcito con salumi e formaggi.
Quello su cui però queste due cucine non andavano proprio d’accordo erano le “sauces”, le salse. Quando arrivò la besciamella i napoletani la ribattezzarono come “a coll po’ presep” e nessuno osava mangiarla. Si diffonde a fine 700 un termine per definire un alimento disgustoso si diceva: è analgo a una sauces francese, mi sembra una ”zozza”.
L’amore per il cibo: l’intervista alla nonna
L’amore per il cibo, a Napoli, è un valore aggiunto. Sono molto famose le domeniche partenopee, trascorse in famiglia, all’insegna di menu classici, che piacciono a grandi e piccini preparate specialmente dalle nonne. Ho deciso quindi di fare alcune domande alla mia per conoscere il suo punto di vista.
Nonna Elisabetta, secondo te, la cucina Napoletana è rimasta la stessa di quando eri bambina o è cambiata?
«La cucina napoletana come si faceva un tempo, oggi non si può proporre in maniera corretta, perché al palato di voi giovani oggi risulta troppo grassa, eccessivamente piccante e dai sapori esageratamente forti. Per non parlare dei mezzi per cucinare: nel mio palazzo era collocato un grande forno a legna, che era consuetudine esserci in tutte le abitazioni, qualsiasi cosa preparava mia mamma acquistava un altro sapore e un profumo che inondava l’intero viale; non è lo stesso con i moderni forni da cucina».
Se dovessi scegliere una sola pietanza della cucina napoletana quale preferiresti?
«I piatti tradizionali della cucina partenopea sono tantissimi ed è inimmaginabile poterne scartare qualcuno ma per il mio gusto personale quello del quale non potrei farne a meno è il babbà».
Qual è il segreto per preparare un babbà “ad hoc”?
«Sale, zucchero e uova, un po’ di lievito e poi si mette la farina. Bisogna stare attenti a delle piccole cose altrimenti decresce: la lievitazione e le pieghe dell’impasto devono essere ben curate. Il forno deve essere ben caldo e deve cuocere non oltre i tre quarti d’ora. Nel frattempo che raffredda si prepara un composto di acqua, zucchero e rum e piano piano si spennella sul babbà una volta raffreddato, che lo assorbe poco alla volta».