In qualità di studente di Sociologia, spesso (troppo spesso) viene rivolta a me e ai miei colleghi la fatidica domanda “Ma il sociologo che fa?”, per giunta con tono sarcastico o denigratorio. Nel rispondere mi sono accorto delle varie sfumature che ha la sociologia e quanto una definizione circoscritta del ruolo del sociologo sia impresa ambiziosa. Ho sentito allora l’esigenza di scrivere questo articolo per rispondere in modo esauriente alla suddetta domanda.
Per questo fine ho pensato di farmi aiutare da Flora Frate, sociologa e docente al Liceo di Scienze Umane di Napoli, che da anni si batte per la valorizzazione del ruolo del sociologo.
Cerchiamo innanzitutto di spiegare cosa fa il sociologo.
Per l’Istat il sociologo è uno studioso dei fenomeni sociali, studia in particolare i rapporti tra individui, gruppi e organizzazioni in relazione alla società di riferimento è indispensabile riconoscere al sociologo il suo campo professionale, se vuole continuare ad esistere. In Italia, Alberoni ha definito il sociologo come una categoria multiforme il cosidetto “sociologo errante”; Ferrarotti, finalmente, riconosce al sociologo, oltre la ricerca, alcuni ruoli, come quello di facilitatore dei processi economici, sociali e comunicativi e compiti nell’ambito dell’assistenza sociale. Il sociologo è molto più di uno studioso: con la statistica o con le scienze quantistiche in generale, il sociologo può e potrebbe occupare un ruolo strategico in settori multidisciplinari. Se da un lato la laurea in sociologia è equipollente a scienze politiche, giurisprudenza ed economia e quindi può partecipare ai concorsi pubblici nel settore amministrativo, dall’altro risulta affine alle scienze umane e al settore educativo. Tant’è vero che il sociologo è impiegato nelle cooperative principalmente come coordinatore dei servizi educativi e prima ancora che si facesse la legge per definire i titoli esclusivi per essere educatori – per fare l’educatore oggi è necessaria esclusivamente la laurea in pedagogia e affine- egli ricopriva anche il ruolo dell’educatore vero e proprio. Mentre gli educatori, con l’Apei (Associazione Pedagogisti Educatori Italiani), hanno vinto le loro battaglie, delimitando il perimetro professionale dei pedagogisti, i sociologi sono attenti a conservare il loro spazio unicamente nell’università e nella ricerca. Negli anni, poi, le università hanno deciso di investire nel settore della comunicazione, ma attenzione, questo non significa che il ruolo del comunicatore è affidato al sociologo, con il paradosso, quindi, di trovarsi subalterni rispetto ai laureati in scienze della comunicazione. Insomma una confusione generale che non giova sicuramente alla professione.
Vediamo a questo punto quali sono dunque i cosiddetti “sbocchi lavorativi” per il sociologo.
Negli anni ’70 e ’80 il sociologo era impiegato principalmente nella pubblica amministrazione. Con l’aumento dei laureati, il blocco del turn over e con la crisi economica, il settore pubblico non riesce più ad assorbire la forza lavoro in generale. E quindi oggi ci sono maggiori difficoltà di inserimento. Ma gli sbocchi lavorativi sono tanti: studioso dei fenomeni sociali, programmatore dei servizi e delle politiche pubbliche; europrogettista, giornalista, esperto in risorse umane e in marketing e comunicazione; poi può essere impiegato nel campo amministrativo, del welfare e dei servizi sociali; infine, nella formazione e nell’aggiornamento professionale.
Quindi, il problema non è relativo al fatto che il sociologo non ha sbocchi lavorativi; il problema centrale è che il sociologo non è una figura professionale riconosciuta dal mondo del lavoro. A differenza degli altri paesi europei, in Italia non si investe nella ricerca e per giunta non c’è un numero di aziende adeguato alla domanda dei sociologi, che è di fatto una figura strategica. Lancio una provocazione: persino la facoltà ha perso il suo nome autentico: oggi non è più “facoltà di sociologia” ma è denominata “dipartimento di scienze sociali”. Questo per dire che il sociologo si è deprivato persino della sua parola originaria. C’è bisogno di un percorso più strutturato: come i medici hanno le loro specializzazioni, così i sociologi dovrebbero avere percorsi di formazione più definiti, per non essere in balia delle altre professioni.
Qual è, dunque, la situazione della sociologia in Italia?
La sociologia è una scienza molto giovane: in Italia ha iniziato ad affermarsi soltanto negli anni ’60. L’Italia ha paura di investire in questa nuova figura perché si presenta molto flessibile e malleabile e quindi potrebbe costituire una minaccia per le altre scienze meno giovani. Poi, in Italia, c’è ancora la logica degli albi e delle corporazioni. Un’economista non cederebbe mai un pezzetto del suo ambito in favore dei sociologi (il consulente del lavoro è stata una professione accessibile ai sociologi fino al 2014, oggi non è più così). Lo stesso vale per l’assistente sociale: perché mai dovrebbe cedere il suo spazio, quando per trincerarlo ha dovuto costituire un albo? Se tutto è regolamentato secondo albi e corporazioni, il sociologo, che fuoriesce da questi schemi, cosa può fare? Di fronte a questo assetto normativo, la figura del sociologo sul mercato del lavoro è ignota o comunque non migliore rispetto a tante altre che sono invece ben indentificate. E in questo, purtroppo, hanno responsabilità anche le associazioni perché non rappresentano adeguatamente la categoria ai tavoli di concertazione. È poco chiaro, ad esempio, il motivo per cui la legge sull’albo dei sociologi è stata depositata in parlamento ma mai mandata in vigore…
«La sociologia è la scienza dell’interconnessione dei vari aspetti della vita sociale reciprocamente condizionati. Una disciplina scomoda fondata su curiosità, la cui ambizione folle è quella di arrivare al significato profondo delle cose e chiarire la natura di molte complessità»
(Franco Ferrarotti)