Lello Arena: «Fare l’attore a Napoli è la peggior idea che ti possa venire in mente»
Ci sono così tanti colossi all’interno del panorama artistico partenopeo, da Totò ad Eduardo, da Nino Taranto a De Vico, da Scarpetta a Tina Pica, che lasciare una traccia significativa sembra un’impresa impossibile. Eppure in questo Olimpo napoletano dell’arte, Lello Arena è riuscito a guadagnarsi l’ingresso con la sua comicità acuta e pulita. Il suo esordio con “La Smorfia”, i film di grande successo apprezzati dal pubblico e dalla critica come “Ricomincio da tre” e “No, grazie il caffè mi rende nervoso”, sempre al fianco dell’eterno amico Massimo Troisi, sono ormai entrati nel cuore di tutti napoletani divenendo veri e propri Cult del teatro e del cinema.
Oggi, con qualche capello bianco in più Lello Arena è un artista poliedrico, capace di spaziare dal comico alla drammaturgia di Molière e Brecht, conducendo un’intensa attività teatrale.
Ci sediamo ai tavolini del celebre Gambrinus, un tempo salone letterario e Cafè Chantant, iniziando la nostra chiacchierata, parlando del suo modo di intendere la comicità e di come stia cambiando: «La comicità ha un solo obbligo, quello di far ridere. Il come ciò avvenga è un altro discorso. La comicità è la forma più vicina all’orgasmo: fa aumentare la temperatura corporea e contorcere in strane mimiche facciali chi ti ascolta, in un rapporto vivo. Per questo non cambierà mai».
E allora chi è il comico? «Essere comico vuol dire essere la persona sbagliata, nel posto sbagliato, al momento sbagliato – ci spiega Lello Arena – quando questi tre punti vengono colpiti, in modo volontario o involontario che sia, nasce la comicità, il divertimento. Quello che il comico dovrebbe raccontare è proprio il senso di inadeguatezza che ognuno di noi prova, un disagio che nel quotidiano cerchiamo di nascondere e che, invece, il comico rappresenta. Bisogna infine conoscere il dolore e la sofferenza della gente per poi costruirci sopra una comicità spontanea e rispettosa».
Nello spirito di ogni attore napoletano, la componente genealogica ha un’influenza fondamentale. In fondo tutti i napoletani hanno per natura una vena artistica, per la quale tutti si aspettano che facciano ridere, sappiano cantare e suonare il mandolino. «Questo luogo comune è vero. É un fattore intrinseco del Dna del popolo napoletano. Prendi Eduardo Scarpetta: esce di casa, prende una cameriera e in tre occasioni fa i tre De Filippo. Poi si accoppia con un’altra signorina e comincia la stirpe dei Murolo. In una società evoluta avremmo conservato come reliquia lo sperma di Scarpetta».
Anche in questo Napoli risulta essere risarcitoria, produce tanto dolore ma di contro offre al genere umano nuovi spunti e nuova linfa per continuare a sperare. Napoli è il posto che ha consacrato la tenace comicità di Lello Arena, originario di Mergellina, sulla famosa discesa di Piedigrotta.
Qual è il rapporto di Lello Arena con la città di Napoli? «I ricordi più belli che ho sono quelli da bambino nelle Piedigrotte, feste che paralizzavano la città e duravano giorni. Ho sempre pensato di dover restare nel posto dove sono nato poi mi sono accorto che facendo questo lavoro non sono mai nello stesso posto, bisogna sempre spostarsi. Da circa tre anni ho deciso di lavorare in pianta stabile qui a Napoli. Ultimamente la città ha elaborato un nuovo modo di vedere l’arte ed è diventata molto più attiva. Napoli oggi produce molto più cinema ad esempio ed è per me come quelle donne troppo belle per essere frequentate da un solo uomo. Artisticamente ti senti costantemente tradito da lei perché sai che devi starci insieme quel giusto per non restarci male. É un po’ zoccola, diciamolo».
Portatore sano di napoletanità, Arena ha vissuto il neapolitan power degli anni ottanta da protagonista. Non prova nostalgia per quei momenti, ma è felice di poterli ricordare. Uno sguardo costantemente orientato al futuro e alla filosofia del fare con passione ed esperienza. Il suo teatro è ben studiato, mai banale, mai improvvisato: «Bisogna rendere vera la recitazione, far sembrare che il recitato in scena si stia verificando veramente in quel momento nella realtà. Ben Besson, uno dei miei maestri, diceva che a teatro si può raccontare una sola bugia. Ad esempio il pubblico si accorda con te del fatto che tu interpreterai Napoleone e da quel momento, non si possono raccontare altre bugie, altrimenti perderai di credibilità. Il teatro è funzione sociale: bisogna raccontare storie e sparire in esse, pensando che non si faccia per te ma per gli altri. É una sensazione terribile che ti impone grande responsabilità».
All’età di tredici anni si trasferisce a San Giorgio a Cremano dove incontra Troisi e inizia un periodo ricco di soddisfazioni con La Smorfia. Così le strade dei due attori si incrociano traducendo un banale incontro in un alchimia che ancora oggi persiste. Ma che ricordo ha Lello del giovane Massimo? «Ho odiato molto i miei quando mi trasferì a San Giorgio. Poi incontrai Massimo invitandolo un giorno per fare una comparsa, un ruolo semplice nella compagnia di teatro dove recitavo. Doveva solo elencare delle cose interpretando un garzone. Mentre recitava cominciava ad esitare e a provare e a riprovare, ostinandosi di voler rispettare l’ordine dell’elenco e suscitando le risate del pubblico. Questa sua spontaneità la porto nel cuore. Dopo quest’esperienza siamo diventati inseparabili e il nostro legame si è solidificato – ci racconta, lasciando trasparire tutta l’emozione che il ricordo di un grande amico può scatenare – mi manca molto il suo perfezionismo nei film e la sua capacità di rendere grandi delle scene semplici. Nei periodi del cinema in cui abbandonammo il teatro sognavamo di ritornare da vecchi per lavorarci insieme come nella Smorfia, non avrei mai pensato di lasciarlo in un modo così drammatico».

Quando si faceva la Smorfia, non si immaginava che sarebbe arrivato tutto quel successo, si pensava solo a fare ciò che piaceva. «Anche mia madre mi diceva “Lello gli attori non sono fatti come te!”. Per lei dovevano essere belli come Cary Grant. Anche dopo l’approdo in televisione e al cinema in seguito, continuava a dire che il successo sarebbe durato poco, che quello non era nemmeno un mestiere. Allora un giorno mio padre si stufò e disse “Addolorà, finchè non se ne accorgono..fallo fa’!” E chi l’avrebbe mai detto – continua sorseggiando una tazza di tè, dopo le parole d’ammirazione del cameriere che gli serve l’ordine – il mio nome accostato a quello dei grandi intramontabili. Non avrei mai immaginato che la vestaglia di mia mamma e la trombetta usate nell’Annunciazione (la celebre scena della Smorfia ndr) sarebbero state conservate alla Galleria del Costume a Firenze».
Il tempo restituisce sempre soddisfazioni e gratificazioni a chi dà tutto se stesso per ciò che ama, arricchendo l’arte e l’immagine di Napoli nel mondo, con umiltà e dedizione. «Dicono che se ne vanno sempre i migliori, allora io per stare sicuro faccio qualche schifezza – ironizza e aggiunge – io non ho sogni nel cassetto. Sono una persona molto caparbia e determinata, per cui mi piace realizzare subito tutto quello che ho in mente. Quando avrò qualcosa nel cassetto vorrà dire che sto iniziando a perdere i colpi, per cui vorrei tenerlo sempre vuoto!».
di Fulvio Mele e Giovanni Imperatrice
Servizio fotografico a cura di Antonio Ocone
Tratto da Informare n° 163 Novembre 2016