«L’educazione e la discrezione sono per me le forme più alte di eleganza»
30 dicembre 2017
Hotel Santa Lucia, Napoli
Sotto la stoffa
L’odore del cognac mi pervade. Guardo i passanti ammantati come Re Magi fermarsi ad ammirare il castello con il suo porticciolo sottostante punteggiato dalle luminarie, e poi lentamente proseguire. Il mare è uno scuro velluto blu ed un vento freddo ne va graffiando continuamente la superficie. Nelle sue increspature resistono ancora gli ultimi barlumi rubini: drappi del tramonto appena calato, mentre tutt’intorno le stelle ora vanno accendendosi, incastonate nella volta dell’ammaliante città misteriosa. Mi volto. La porta girevole dell’hotel riprende a muoversi. Un filo d’aria fa ondeggiare gli addobbi del salone ed un profumo fresco di abete si riaccende estendendosi fino a me. Sono due Venere in pelliccia, alte, bellissime; ma non è per loro che oggi sono qui. Mi accosto di nuovo alla grande vetrata che incornicia quell’incantevole scorcio come in una cartolina. Sulla strada una carrozza sfila senza tempo, trainata da quattro cavalli neri lucidi come porfido bagnato. Mi siedo di nuovo sul sofà. Affondo. Guardo l’orologio e sorseggio l’ultima fiamma di cognac.
[°REC] Premuto il tasto mi schiarisco la voce.
«Noi non siamo la professione che svolgiamo… – provo il registratore – ma esseri straordinari alla continua ricerca di noi stessi nella natura che soffochiamo».
Leggi l’ultimo numero del Magazine Informare n° 179 Marzo 2018:
In quel momento con la coda dell’occhio lo vedo entrare! Alto. Distinto. Una figura tagliente con uno sguardo penetrante. Lieto che sia arrivato, agito una mano e gli sorrido per farmi vedere. Attraversa la hall senza fare rumore. I suoi passi sono discreti, sembrano non toccare il pavimento. La sua silhouette nascosta nel lungo cappotto nero è decisa ma riservata. Con due abili dita slaccia il bottone del cappotto che ora va aprendosi come un mantello nell’avanzata elegante verso di me, che lo attendo in piedi. Ci abbracciamo. Il suo profumo mi porta alla mente scorci blu. Qualche momento dopo optiamo di spostarci in un luogo più appartato e così nell’arco di un minuto ci troviamo davanti alla porta della camera 119, quella che lo stilista ha scelto per trascorrere le sue notti fuggenti.
Caro Scognamiglio, che cos’è per lei l’eleganza e, da che cosa la si riconosce? (Considerando la nostra amicizia potrei benissimo dargli del Tu ma sinceramente trovo più elegante rivolgermi a lui adoperando questa formula dal suono più gradevole e rispettoso).
«La buona educazione credo che sia la forma più alta e bella di eleganza. Senza dubbio!».
Anch’io trovo che la buona educazione sia molto elegante. Mi associo.
«Anche una piccola dose di educazione all’estetica ha la sua importanza. Trovo inoltre molto elegante l’animo generoso delle persone, i modi gentili. Una persona che con la sua sensibilità ed il suo fare si sa rapportare al mondo; questo trovo elegante più di ogn’altra cosa! Questa qualità umana è la vera grande bellezza».
Al contrario della sua immagine amletica, la sua voce è pacata, bassa e calda. Possedere il pregio del buon gusto è una questione di dote innata, oppure è uno sbocciare graduale dell’intelletto, che manifesta così la sua complessità e raffinatezza?
«Il buon gusto negli anni ’80 era il cattivo gusto che poi è diventato moda, per cui il buon gusto è lo specchio della propria anima (riferito ad un lavoro che può essere, il narrare una poesia per esempio, lo scrivere una canzone o disegnare un abito.) Per cui: il buon gusto è semplicemente un racconto molto personale ed autentico di sé».
Lo ascolto. La sua voce nella camera insonorizzata acquista le tonalità sorde e spesse del legno. Nel frattempo però sono da subito impegnato nell’attento compito di decifrare correttamente i significati codificati del suo racconto interiore. Quel che per lui è chiaro per qualcun altro potrebbe non esserlo.
Durante l’ideazione di una collezione ascolta una musica in particolare, oppure porge lo sguardo a un certo tipo di pittura, oppure come certi poeti, si abbandona alla natura per risvegliare i sensi? Cosa la stimola?
«Ogni stagione quando sono sotto collezione per me è come cadere in un lungo stato di trance. Credo che valga lo stesso per chiunque faccia il mio lavoro. In questi momenti io personalmente mi “drogo” di musica. Cerco delle influenze nuove attraverso la musica. Ho bisogno che il suono mi arrivi al cervello per aprirlo e creare qualcosa di nuovo. Cerco esperienze. Sensazioni. Visioni. Per questo motivo non posso più ascoltare un brano di Sakamoto che mi ha già portato a disegnare una collezione (ad esempio), altrimenti lo assocerei inevitabilmente ad una forma dello stato d’animo che ho già esplorato, che ho già descritto. Le idee devono essere sempre fresche e diverse, soprattutto quelle che giungono dal passato. Quando sono in una fase nostalgica invece, sento il bisogno di abbandonarmi agli umori di Wim Wenders, o lasciarmi prendere dalla passionalità e dal dramma di una Nonni piuttosto, che (a parte essere un mio amico) trovo essere una persona organicamente capace di creare un forte impatto emotivo sullo spettatore; un artista le cui opere ti mettono nella condizione di tirarti fuori qualcosa. Ma non è soltanto la musica ad ispirare. A volte può bastare anche una passeggiata per un vicolo di Napoli ed ecco che ti capita di vedere un’anziana signora di buona famiglia, vestita da Dio, che pesa 40 chili e indossa un cappottino giustissimo. Ecco che, inaspettatamente dentro ti si innesca una fantasia che ti porta ad altre atmosfere, ad un’altra storia, ad un altro film mentale da percorrere e interpretare».
Interroga mai se stesso sul senso che ha ciò che fa? Qual è il suo contributo all’umanità?
«Il contributo che dono è quello di raccontare sensorialmente ed emotivamente – mi auguro – la mia storia. Questo è quello che, di stagione in stagione mi prefiggo di fare. E cioè di scrivere col tessuto la mia favola personale. Quest’anno tra l’altro celebro il mio ventesimo anno di attività. A gennaio decorre il mio ventennale. Per tornare alla tua domanda: Emozionare le persone. Ecco qual è il mio lavoro. Ed è questo che mi gratifica maggiormente. Oggi ad esempio – un episodio fluttua ancora nei suoi pensieri, è breve, me lo racconta – mentre passeggiavo da solo a piazza dei Martiri prima di raggiungerti qui all’appuntamento, una signora che camminava a pochi passi dietro di me dice al marito e alla figlia: “Guarda! Guarda! Quello è Francesco Scognamiglio, lo stilista…” E il marito le fa: “Ma non può essere. Non è lui”. E a quel punto allora la figlia dice: “Mamma fermalo, fermalo! Dai chiediamogli una foto”. La donna, stavolta con un più dignitoso tepore nella voce fa: “Non mi permetterei mai”. Questa sua dimostrazione di tatto nei miei confronti mi ha fatto presumere che nutrisse per me una reale stima e, probabilmente è stato proprio per questa che, ha preferito controllare il suo entusiasmo del momento e non invadere il mio momento di intimità. Perché una passeggiata è soprattutto questo. Un momento di riflessione e raccoglimento con se stessi».
Accompagno la sua riflessione.
«Ho capito anche un’altra cosa – Continua, più cauto, come analizzandosi un nervo scoperto – Ho realizzato che al di là della gratificante “riconoscibilità” che alcuni possono ottenere svolgendo con cura il proprio mestiere, l’essere considerati “divi” (o un qualcosa di simile) crea però quell’inevitabile e spesso imbarazzante distacco umano, che alla fine crea un dolore sotto la superfice. La moda, oppure il cinema (ancor più), creano un’impressione sfalsata della realtà. Creano questo spazio rarefatto che si interpone tra il protagonista di questo lontano mondo d’élite ed il pubblico. Una sorta di vuoto incantato dentro il quale alla fine, chi ci si trova, corre il rischio di sentirsi perso per sempre, come in un’atmosfera extraterrestre… Mi rendo conto bene però, che affinché si preservi ancora quella fascinosa magia che ruota intorno alla moda, occorre che l’oggetto del desiderio (mi riferisco al bene di lusso) debba rimanere sempre uno scintillio quasi irraggiungibile, come un sogno appunto! …Se quella donna a passeggio col marito e la figlia mi avesse fermato per salutarmi – un riverbero di razionalizzata tristezza ritorna a congelargli l’espressione – mi avrebbe fatto felice e io l’avrei ringraziata, perché come tutti, anch’io ho bisogno di questo calore umano. Sono una persona».
Sotto la stoffa di “narratore di sogni” come lui stesso si è definito, si scorge una persona come tante altre, non difficile da approcciare. Si sente una persona realizzata? È fiero di se?
«Il giorno in cui mi sentirò una persona realizzata sarò un fallito! Non mi sono realizzato ancora in niente. Nel senso… Questa è solo “una parte” del mio racconto – Un ottimo inizio allora! Gli sorrido – Nella proiezione dei prossimi dieci anni mi vedo ancora a fare il mio lavoro ma poi, come ho sempre detto a chi mi conosce, a cinquant’anni voglio fare il regista. Voglio raccontare la bellezza stando dietro una telecamera».
Questa sua rivelazione mi rallegra per ovvi motivi ma non mi sorprende affatto. I creativi sono persone estremamente curiose e intraprendenti. Hanno la necessità di trovare formule di espressione sempre più esaustive e potenti. Hanno, direi “un obbligo morale” a realizzare l’irrealizzabile. Come una vocazione, essi non possono sottrarsi al loro destino di sperimentatori delle arti e delle tecniche. Per loro la “trasmissione” delle percezioni interne e del mondo circostante hanno un valore taumaturgico. Nulla è soltanto un gioco, anche se di giochi alla fine si va parlando. L’espressione di sé è libertà, e la libertà è espressione totale di sé!
«Ho tanti amici registi… Di questi te ne cito soltanto uno, il mio amico Giovanni Veronesi. Lui mi dice sempre “Il miglior regista non può che essere uno stilista e tu, faresti sicuramente un lavoro più eccellente del mio”. E quando io gli chiedo “Giovanni ma perché mi continui a dire questa cosa?” lui mi risponde “Tu, o chi come te, avete una sensibilità al terzo stadio che io non ho. Le luci che posso dare io con la mia fotografia, tu le daresti dieci volte meglio! Se ci pensi tu sei il regista delle tue sfilate e delle tue modelle. Sei colui che sceglie le scenografie e da un’impronta decisiva con la scelta delle musiche. Sei colui che crea la storia che sulle passerelle narri attraverso gli abiti. Sei colui che influenza le tendenze, insomma, sei un passo avanti. Sei un visionario!”».
Ha qualche tipo di rammarico? Conosce tormenti?
«Conosco tormenti? – si domanda – No».
Risponde il suo “io”. Forse per orgoglio. Ma il suo pensarci silenzioso mi indica invece che qualcosa gli si muove sul fondo.
«Forse il fatto che ho lasciato Pompei quando avevo ventisette anni… – si confida senza mostrare alcuna frattura – Il rammarico forse è quello di essermi allontanato un po’ troppo dalla mia famiglia. In questi quindici anni non ho speso molto tempo insieme a loro… Dieci anni fa ho perso mia madre. Per cui forse il rammarico è quello di non aver speso molto tempo insieme a lei, anche se in realtà, io e lei avevamo un rapporto telefonico morboso».
Recuperare il passato è quasi impossibile e vivere cercando di porgli rimedio è una dannazione altrettanto grande. Ma spendere se stessi affinché non tutto vada completamente perduto è un modo per proiettare in avanti tutto quello che non si ha avuto abbastanza forza di recuperare dal fondo. Il passato non si salva ma in certi casi, “salva”.
E davvero non ha alcun tormento?
«Mi tormentano le cose negative. Mi tormenta il sapere che ci sia ancora della cattiveria a questo mondo. Mi tormenta constatare che ci sia ancora della cattiveria gratuita… E il sapere che ci sia una forma di gelosia e di invidia tra gli esseri umani che io ad esempio -grazie anche mia madre- non provo e non nutro affatto. Ci sono delle parole o dei sentimenti che non fanno proprio parte del mio corpo. Non sono scritte nel mio DNA. Non ho mai provato invidia o gelosia per nessuno. Anche quando non ero nessuno e vedevo magari gli altri possedere tutto quello che io non avevo. E il sapere che ci possa essere qualcuno che tesse trame di invidia alle mie spalle anziché concentrarsi su se stesso, mi mette angoscia».
Nel bel mezzo dei tanti party in giro per il mondo o immerso nel clamore della vita si sente mai solo? Le viene mai voglia di spegnere tutte le luci del globo e di gridare forte come un tuono: “BASTAAA!!”?
«Che io mi senta solo, questo tutti i giorni! Ma il rispetto e l’amore che io ho sempre nutrito per i miei amici mi ha permesso poi di sentire attorno a me una sorta di nuova famiglia. Però poi, tornando a casa mi sento solo… Non avendo una vita privata, è normale che mi senta solo. E in merito al desiderio di gridare “basta” questo non l’ho mai provato». …Chissà se si tratta soltanto di un forte autocontrollo, mi domando.
Che cos’è che le manca più di tutto in questa vita?
A questa domanda i suoi occhi si fanno due lune. La statua di onice che fino a quel momento imperava composta, ora va’ frantumando la sua regale immobilità. Inspirando profondamente, Francesco si ritrae come la marea dalla riva. Lo osservo. Sospeso come il silenzio nel cielo prima del vento, Francesco s’immerge nelle sue profonde oscurità. Lo attendo. Poco dopo riemerge. Più saggio di prima. Lo sguardo ritorna. La voce è calma. Il suo umore è pacato. Non un filo di tempesta trassale dai suoi movimenti; non un’onda scompone la sua energia. È quieto. Nessuna increspatura sulle sue labbra.
«Domanda abbastanza importante questa – mi fredda – Una nuova felicità! – risponde, direzionando la voce al registratore dinanzi a lui – sono felice sempre fino a un certo punto, poi però… – è al centro del letto. Seduto a gambe incrociate, comodo ma dritto – la felicità assoluta rimane per tutti l’obiettivo più grande ancora mai raggiunto. In questi ultimi anni sento ancora di più… – cosa? – L’esigenza di raggiungere una felicità profonda».
I suoi occhi scorrono pesanti sulle superfici anonime della camera senza con sé portar via nulla di quel lusso. Vuoti ritornano a me. «I soldi sono soltanto un accessorio. Le automobili sono volgari – ed infatti io non guido – e gli orologi sono freddi più dei gioielli – si ferma – Quel che scaldano sono i figli. Che però io non ho…».
Ti va di fermarci un po’ così ci fumiamo una sigaretta? Gli chiedo mettendo in pausa il registratore. Lui sta guardano fuori dalla finestra, non mi risponde. Napoli è velata.
«Fumo soltanto quando bevo, ed ora non mi va – mi sorride, tristemente – continuiamo».
Sente di essere profondamente legato a qualche persona in particolare?
«A mia madre. Unica vera grande icona della mia vita. Sono legato a lei più di quanto non lo sia a me stesso. Era una donna, era una madre, era lo spazio dentro una casa. Ha sempre creduto in me più di chiunque altro e mi ha indirizzato verso la realtà in cui mi trovo – nel frattempo il suo cellulare s’illumina in continuazione ma lui lo ignora. Lo lascia fondere sul comodino – E poi sono molto legato a questa città. Per me Napoli ha un suo fascino tutto perverso. La immagino sempre come una bellissima puttana, una donna con tanti problemi, che però ti viene in sogno col viso pulito che ti porge la mano. È una maga che sa vestirsi in tanti modi, è una fiaba, è l’ombra che ti chiama in fondo a una strada. Napoli ti prende, Napoli ti da».
A chi va il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi la sera?
«A mia madre». Nell’attimo esatto in cui mi da la risposta (forse per un lieve sporgersi del petto o per un impercettibile movimento del collo che io non ho colto), un azzurrognolo luccichio baluginò da sotto il colletto della camicia. Già più di una volta quello stesso pomeriggio avevo notato quel tennis di brillanti che gli tagliava le clavicole impreziosendogli la linea del collo, ma mai fino a quel preciso istante, nessuna di quelle gelide gemme avevano sprigionato una tale scheggia di luce! “…Per caso quella collana è appartenuta a tua madre?” Sono tentato di domandargli ma trattengo l’impulso. Desisto, scosto lo sguardo e vado avanti con l’intervista.
Dice mai grazie? Ed è capace di perdonare?
«Sempre! – risponde di prima – sono una persona radicata nel terreno dei sani principi e dei valori».
Ma lo fa per passiva abitudine, per buona educazione, o perché sente una vera gratitudine?
«Quando ringrazio lo faccio perché sento una vera gratitudine».
Ed è capace di perdonare?
«In questi ultimi anni ho imparato a perdonare… Mi era stato insegnato ma non è mai stato facile farlo. Ma nel momento in cui si accetta di perdonare, nel momento in cui accogli la generosità di quell’atto voluto dal cuore, allora ritorni a unirti al mondo! È un gesto di grandissima nobiltà».
C’è una persona alla quale si sente particolarmente riconoscente?
«Sono riconoscente alla mia famiglia in primis, che non mi ha mai fatto mancare niente. Poi mi sento riconoscente al mio maestro Gianni Versace, che ho avuto il piacere di conoscere ventiquattro anni fa a Napoli con sua sorella. All’epoca io ero il classico ragazzino alle prime armi. Gli facevo da aiuto tuttofare. Gli portavo gli spilli, raccoglievo le forbici, portavo gli abiti alle costumiste, aiutavo le modelle a cambiarsi… Insomma ero un vero e proprio factotum. Ricordo tutti gli incontri importanti che ho fatto con lui, le persone straordinarie che ho incontrato nel tempo… – socchiude gli occhi, mi accorgo che va incontro ai ricordi che sopraggiungono. Lo lascio andare – Sono stati anni bellissimi quelli…».

La gioventù gli riaffiora sul viso e la scia di immagini, odori e musiche si fa sempre più intensa. Mi racconta di quella volta quando si è trovato al cospetto della principessa Diana. “A trenta centimetri dal suo viso” mi confida trasognante. “Ero perso nei suoi occhi”. Mi descrive il periodo più ricco e florido del ventesimo secolo, quando la moda raggiunse l’apice più alto e richiamava intorno a sé l’interesse di artisti influenti, di capi di Stato, di eroi dello sport, divi del cinema, petrolieri e mafiosi. Tutta l’élite pianeta insomma, tranne i santi e le sante che poverini avevano ben altro a cui pensare! Anzi… Per rimaner in tema di “spirito”, se non ricordo male si diceva che anche il Papa Ratzinger per un periodo scelse la comodità delle scarpe Prada! Comunque, tra il nostalgico trasognante ed il distaccato disilluso narratore di storia, Francesco continua a dipingere per me il panorama eccessivo e variegato di quel periodo sfrenato. Non gli chiedo di far nomi perché so benissimo che non è il tipo che sfoggia conoscenze illustre se il contesto non lo richiede, apprezzo molto anch’io questa riservatezza e quindi continuo ad ascoltarlo senza interromperlo mentre si avvia alla conclusione di questo suo rapido flashback. Chissà se sono realmente trascorsi i tempi di quando le first lady e le principesse di regni lontani sceglievano di esser vestite esclusivamente dai grandi sarti francesi e italiani. Chissà se la globalizzazione oggi ha cambiato qualcosa. Ma non credo più di tanto…
Il made in Italy rimane sempre una delle poche punte di diamante al mondo e i nostri prodotti sono davvero INCOMPARABILI! E noi onesti artigiani italiani dovremmo davvero scatenare una rivoluzione affinché la tradizione e la nostra competenza nelle arti materiali e poetiche, non vengano svilite e deturpate da sbagliate gestioni politiche-imprenditoriali.
Il flusso emotivo di Scognamiglio viene interrotto dal telefono che riprende ad illuminarsi sul comodino. Chi sarà ora, mi domando. Di nuovo Madonna?? Oppure Naomi Campbell alle prese con una nuova crisi di nervi? O forse quello sfigato di Di Caprio che ha perso in mare le sue chiavi della villa a Capri? Non lo sapremo mai perché lui è un signore. E per non permettere più a nessuno di infastidire la nostra conversazione, gira il telefono faccia in giù. … “Ci dispiace Di Caprio, la prossima volta fai più attenzione”.
«Molto! Sì. …Mi affascina sempre molto accorgermi di quanta dedizione e passione dedichiamo al “mistero”. Mi sorprende avvertire quell’incontro che avviene tra il nostro spirito e quell’essenza che si accentua nei luoghi di culto. Le chiese mi infondono quiete».
Sospende così… Nella camera ritorna il silenzio. Forse anche la razionalità che domina in testa sente il fisiologico bisogno di dissolversi – qualche volta – e farsi come il sogno: rarefatto.
È felice?
«Io credo che nessuno di noi sia felice abbastanza».
Quanto di Pompei c’è nei suoi abiti che sfilano sulle passerelle di tutto il mondo? …Oppure si sente cosmopolita?
«Da Pompei sono partito, è lì che sono nato e lì ho avuto la mia prima atelier. Devo molto però alla città di Napoli per la totale influenza artistico culturale e, umana anche, che mi ha dato. Questa città mi ha sempre ispirato. Tutto di questa città ho sempre usato. Ho tratto dai colori, dal chiasso, dagli odori, dal carattere e tradotto in codici identificativi che poi ho introdotto nelle mie collezioni. Ho versato Napoli nella mia moda, con tutta la sua drammaticità, i suoi specchi infranti e il suo buio. D’altronde Napoli è la grande scenda del teatro!».
Gli sorrido. Le sue risposte sono sempre molto evocative.
C’è qualcosa di questa società che disapprova?
«Tra le tante cose sicuramente le discriminazioni razziali e sessuali che ancora oggi si fanno nuocendo sulla pelle di tanti! Disapprovo la non accettazione dell’altro. La non accettazione della “diversità” intesa come un valore e non come un difetto. L’intolleranza religiosa, il maltrattamento, l’arroganza, il disprezzo! Disapprovo tutto ciò che si frappone tra la persona e il raggiungimento della sua felicità. Io credo che tutto ciò che natura crea deve essere accettato. Non è ridicolo il fatto che due persone dello stesso sesso possano innamorarsi ma, piuttosto il fatto che questo non venga considerato amore ma deviazione, perversione…».
Le parole capitalismo e consumismo le fanno qualche tipo di effetto?
«Non so nemmeno che cosa significhino – Come mi scusi?? Aggrotto la fronte Non mi risponde. Nulla?? Insisto io – Non ne conosco il vero significato sono sincero. Mi fa d’improvviso una domanda politica!». Ribatte lui.
Sinceramente, io rimango un po’ allibito… Comprendo perfettamente la sua posizione ed il fatto che magari non se la senta di esporsi più di tanto sull’argomento ma, l’intelligenza per prendere una posizione ideologica pur rimanendo diplomatici lui ce l’ha, non gli manca! Okay. Chiudo io. Forse un giorno quando mi troverò anch’io nella sua stessa posizione capirò! Mi dico… Dunque non giudico e vado avanti.
Si sente a suo agio in questo periodo storico oppure sente di appartenere a un’altra epoca del passato? Se sì, in quale?
«Sono felice di essere nato in questo periodo storico solo che… Forse nutro un po’ di nostalgia per gli anni ’80. Mi sarebbe piaciuto viverli da più adulto – anch’io! ammetto immediatamente – per attraversarli con un vigore ed una consapevolezza diversa. Per potermi sentire un po’ più protagonista attivo del tempo, per godermeli di più, ecco! Penso al costume di quel momento particolare. Penso alla musica che risuonava per le strade di New York ad esempio. Penso ai cabaret, allo studio 54 in quel momento quando nasceva la Pop Art. Quando nascevano dei grandissimi artisti tutti insieme per appuntamento preso in chissà quale altra vita, per consumarsi insieme alla fine del millennio. È stato quello forse il momento in cui c’è stata una grande forza globale scaturita dalla vibrazione dell’arte e dall’entusiasmo popolare. Oggi ancora resiste in qualche fibra ma, in maniera più sbiadita, in maniera più appiattita».
Quali sono le sue muse ispiratrici e, quali DIVE ha finora avuto il piacere di impreziosire con i suoi abiti?
«Le donne che ho sempre ammirato per il loro merito e il loro immenso fascino sono: la principessa Lady Diana; la principessa di Monaco Grace Kelly; e il premio Nobel Rita Levi Montalcini. Tovo che la Montalcini sia stata tra le donne più magnetiche ed eleganti della storia. Ecco, queste sono le tre donne che hanno sempre condizionato la mia estetica».
Una mente intelligente è sicuramente anche elegante.
E se invece oggi le proponessero di realizzare un capolavoro di sartoria per una donna altrettanto importante, per una donna che si distingue nel mondo per un qualche merito, lei sceglierebbe?
Ci pensa su per qualche istante e poi sospirando mi dice che non riesce a immaginare altri nomi diversi da quello già nominato: Diana Spencer.
«Per quanto riguarda la tua seconda domanda invece… – Beve un sorso d’acqua – non credo sia veramente necessario… – (“elencare”) intende – basta digitare su Google per sapere…». Trova volgare auto referenziarsi.
Opera o cinema: quale di queste arti preferisce di più in questo momento?
«Cinema. L’opera la trovo noiosa sinceramente. È troppo pesante. Spesso il motivo per cui si va’ all’opera è per far sfoggio di sé più che per ascoltare l’aria».
Quali sono le “esigenze” che la spingono a fare ciò che fa?
«La mia non è un’esigenza ma, una spontanea propensione artistica che fluisce verso il ramo del design. È nella mia natura. Lo faccio con naturalezza, continuamente. Amo arredare le mie case inoltre, e quando organizzo un cocktail a casa ad esempio, mi piace curare ogni piccolo dettaglio, mi piace pensare alla scelta del disegno luce, alla musica, all’arredamento, al gusto in generale della serata. Tutto per raggiungere un’armonia estetica. Da stilista il mio “scopo” è quello di cristallizzare la mia anima (intesa come pensiero, come stile) in un abito e farlo rimanere nel tempo. I miei abiti non hanno solo la funzione di coprire il corpo ma, quello di far sentire “speciale” chi lo indossa. Sono come dei dipinti da indossare. Tele uniche liberate dalla cornice per scivolare nel movimento».
Perché proprio la “moda” e non l’“architettura” ad esempio? La prima è effimera, è passeggera, momentanea; la seconda invece no. Ha una reale utilità e dura per sempre, persiste alle stagioni della storia.
«Non lo metto in dubbio. Comunque, se dovessi scegliere di fare un’altra cosa preferirei fare l’interior designer (cosa che ho già fatto molte volte per le abitazioni dei miei amici). Adoro disegnare gli interni e poi arredarle. Scegliere di fare l’architetto avrebbe richiesto l’acquisizione di competenze tecniche che invece io non ho perché probabilmente sentivo di non possedere un talento per certe materie scientifiche… La mia predisposizione confluisce invece in altre forme e generi di disegno e progettazione».
Per il “disegno libero” (penso tra me), è comunque richiesta una conoscenza profonda della tecnica ed una folle immaginazione. Riflessioni a parte…
Che potere ha l’arte contro la distruzione generata dall’egoismo e dall’insensibilità?
«Forse nessuna».
I suoi occhi mi fissano nella penombra ovattata della sera. La consapevolezza che l’arte nulla ha potuto e forse nulla potrà, ferisce sia lui che me. Il respiro si fa pesante ad entrambi ed un sospiro di sconforto ci fa scoprire d’esser d’accordo su questa triste possibilità senza parlare. Poi le parole si manifestano e con sapore accademico cercano di riordinare e considerare i significati.
«L’arte ferma un momento storico e lo racconta con linguaggio universale. L’arte può alleviare qualche dispiacere, può generare qualche stimolo a pensare… L’arte può accendere un sogno l’laddove la brutta voragine negativa spegne ogni scintilla di possibilità. L’arte non è la soluzione, ma la medicina».
Gli artisti sono soltanto degli incorreggibili illusi allora, oppure hanno un reale potere nelle mani da utilizzare con più veemenza per trasformare il fango in cornucopia e le pietre in gemme?
«Se si parla di veri ARTISTI, allora sì! Specifico perché, oggi pare che tutti quelli che sanno scattare una fotografia si considerano degli artisti…».
“Noi siamo ciò che facciamo ripetutamente. Quindi l’eccellenza non sta in un singolo atto, ma nel comportamento”. Aristotele.
Ha fiducia nelle giovani generazioni? Teme il futuro?
«Non ho mai pensato al futuro perché il futuro è diventato talmente “momentaneo” come concetto… l’unica cosa che temo è che, più andiamo avanti e meno saranno i rapporti interpersonali, la tecnologia ha distrutto le comunicazioni, le ha avvicinate, le ha facilitate ma non esistono quasi più I veri incontri di persona, non esistono più gli abbracci (se non per scattarsi un selfie), non esistono più gli sguardi, ma siamo tutti nascosti dietro uno schermo. Questa è l’unica cosa che mi spaventa del futuro che… Allontanerà ancora di più le persone dal calore vero del contatto».
“Realtà meccanicistica” o “immaginazione”? Quale di questi due mondi frequenta più volentieri? Ed è più bravo nel programmare strategicamente la vita oppure si lascia dirigere dagli impulsi della fantasia e dall’istinto?
«Io vivo solo ed esclusivamente d’immaginazione, della realtà non me ne frega niente! Anche perché sono un sognatore, ahimè!… Altrimenti avrei fatto un altro lavoro. Ma, da un lato sono molto programmatore, nel senso che devo avere il controllo su tutte le cose, ho bisogno di un ordine mentale, ho bisogno che le cose siano tutte precise, preparate… E dall’altro, mi lascio un po’ prendere dall’istinto. Mi lascio andare…».
Talento – Tecnica – Tenacia. Tre pistoni fondamentali che non possono assolutamente mancare in un buon motore che funziona. Quale altro pistone essenziale potremmo aggiungere a questo sistema di ingranaggi?
«La libertà! La libertà è la chiave della creatività. Senza di questa le tre “T” non servono a niente».
Cos’è il “successo”?
«Cos’è il successo… – si domanda passandosi una mano tra i capelli lucidi – il successo è l’inizio della crisi».
Le parole fuoriescono scheletriche e sulfuree. Noto in lui un coinvolgimento distaccato. La sua energia ha la luce d’un fuoco congelato. L’ambiguità indifferente, tipica di chi ha conosciuto Caronte in qualche traversata verticale per cui nulla più ora può impressionarlo, l’ammanta da capo a piedi. Ora che ci penso, da quando lo conosco non l’ho mai visto sorridere veramente. Non ha l’aria di una persona appagata; qualcosa in lui non ha ancora messo le ali. In oltre, il tono grave della sua voce, quel modo di parlare perbene sempre un po’ annoiato, aggiunto alla sua espressione sempre lievemente congelata, me lo fanno raffigurare così quest’enigmatico Scognamiglio: come un duca non innamorato che con nonchalance vive indossando la propria ombra. Diradata la foschia gli chiedo se può gentilmente essere più “chiaro” …
«Il successo è quello stato in cui ti trovi quando capisci di aver raggiunto l’apice di una vetta e allo stesso tempo mentre stai respirando il profumo della conquista senti che sotto i piedi una inevitabile instabilità si sta preparando già; per cui ti inizi a domandare: “E cosa sarà domani?”, “E cosa devo fare di più?”, “E cosa posso avere di più?”, “Come posso resistere ancora?” E così incomincia una crisi prima psicologica – invisibile – e poi di conseguenza anche fisica che si materializza tra le dita, diramandosi intorno con il rischio di un effetto domino».
Viaggia con poche cose. Una travel bag in pelle è aperta come un fiore sulla poltrona accanto alla finestra. Su un appendi abiti scorgo una giacca blu doppiopetto con i tradizionali bottoni in oro satinato, e perfettamente piegata su una sedia vicina individuo un pulito dolcevita nero che fa ancor più sottile la sua già snella figura. Nell’armadio vuoto impera l’elegantissimo cappotto scuro, capo indispensabile per attraversare ogni scena. E sul tappeto due sole paia di scarpe per completare il corredo: mocassini di pelle e scarpe da sera. Le une accanto alle altre in un perfetto ordine scenografico che non può che denotare un gusto per la composizione degli accessori. Ma soltanto lo sguardo alle mie spalle noto ancora qualcos’altro. Sullo scrittoio adornato da un abat-jour intercetto un quotidiano ripiegato sotto un morbido paio di guanti dalle finissime dita nero corvino. Sulla toilette del bagno per finire, intravedo un rasoio d’argento ed un flacone di vetro scuro dal quale si diffonde un setoso profumo di disgelo mattutino. Il suo bagaglio dunque è il perfetto equilibrio tra il giusto essenziale e l’irrinunciabilità al piacere. La leggerezza è la chiave di chi sa viaggiare. Lo spazio vuoto è la sua libertà!
Quando la domanda sembra “ripetitiva” allora è la risposta deve saper fare la “differenza”! Allora mi dica: nelle sue trame e stoffe preziose trasporta mai le atmosfere e Ie tradizioni di questa misteriosa città, oppure di Napoli è stato già detto tutto, già tutto utilizzato, spremuto e consumato fino a rendere ormai qualsiasi altro nuovo tentativo d’interpretazione soltanto un altro misero cliché? Una puerile banalità…
«…Per la mia penultima collezione di alta moda che ho fatto un anno fa a Parigi mi sono ispirato interamente al museo di Capodimonte. Ho fotografato i giardini del museo ed ho riprodotto nelle seterie di Como questi jacal, questi tessuti a rilievo di seta e con la simmetria di questi fiori ho creato degli enormi cappotti; in oltre ho fatto fare dei bouquet di rose intessute a mano che richiamavano le finissime porcellane di Capodimonte. Insomma ho preso ispirazione da questo museo (tra i più belli al mondo) ed ho riprodotto queste opere d’arte con i fili e i colori della mia inventiva. E da questo museo ho addirittura tirato fuori delle luci che sono state un po’… l’“emozione” che volevo dare attraverso quella collezione. Luci che ho tratto dalle meravigliose opere del Caravaggio che sono esposte lì nel museo appunto».

Perché secondo lei il mercato dei capi ecologici non ha ancora preso piede e invece quello dei capi in pellame, seta e pelliccia caparbiamente va’ resistendo ancora? Perché le maison di moda, (così come le case automobilistiche che fabbricano mostri a combustione) si ostinano con queste efferate afflizioni, forse il green non è abbastanza “chic” nella mente del consumatore?
«In questo momento c’è tanto lavoro sull’ecologico. Tanti stilisti non usano più le pellicce ma usano le pellicce ecologiche, e lo sviluppo – da quel che vedo – sta andando sempre più verso questa direzione. D’altro canto però ci sono ceti sociali molto elevati che le prediligono ancora, forse per vezzo, forse perché considerate ancora un valido status symbol. Molte donne amano possedere un cappotto di volpe piuttosto che una borsa di coccodrillo. Lo sappiamo tutti, la storia lo insegna: i cambiamenti non sono mai bruschi ma necessitano di tempo. Però, piaccia o non piaccia, io penso che ci sarà sempre questo tipo di cultura qui. Questa cultura per l’esotico; per le “ricchezze” in via d’estinzione. Da quel che posso prevedere, credo che questo sarà un mondo che non tramonterà mai. Riflettendoci, il desiderio di coprirsi con delle pellicce o quello di essere cinti da fasce di pelle o da squame, credo che nasca da un ricordo atavico – ma molto forte – di quando l’uomo da preda della naturale si è sentito finalmente il più forte tra i predatori. La sensazione di avere tra i denti uno squarcio di calda carne animale o quella di sottomettere il proprio cane con un comando verbale, da ancora la sua macabra e narcisistica soddisfazione. Oltre al fatto di far sentire ancora uno stretto contatto con la natura». …Del tutto deviato vorrei aggiungere io!
E lei ha mai pensato di dedicarsi a materiali totalmente ecologici, riciclati, e creare una sua linea tutta funzionale, minimal e comoda da indossare? Non sarebbe pur ora di dedicarsi a questo tipo di ricerca finalmente?
Storce il naso… «No, io sono un creativo e devo usare le sete, devo usare i materiali che la natura mi ha messo a disposizione sennò cambio lavoro!».
Non approvo ma, rispetto e comprendo in pieno il suo punto di vista. Immedesimandomi in un pittore è come se da un giorno all’altro mi si chiedesse (o peggio! Me lo si impedisse per mezzo di una nuova legge), di usare gran parte di quei colori caldi che fino a quel momento ho sempre avuto a disposizione sulla mia tavolozza, perché tali “particolari tonalità” disturberebbero la pudìca sensibilità delle giovani caste osservatrici. Oppure, (stesso principio) è come se a un pianista gli si chiedesse di non suonare più tutti gli ottantotto tasti del suo pianoforte ma da questi escluderne i primi dieci della scala perché, secondo un nuovo studio scientifico, provocherebbero un suono troppo basso tanto da creare un latente stato di depressione in chi ascolti queste note.
Lusso – Lussuria… Come le sembra il suono di queste due parole accostate così, l’una vicina all’altra? Il lusso è emanazione chiara di potere, di un potere troppo seducente da potersi dire non rapiti. Lei ne subisce il fascino oppure si sente immune a questo sortilegio malizioso (chiamiamolo così)?
«L’accostamento lo trovo molto accattivante, ma non trovo che il lusso abbia molto a che fare con la lussuria… E comunque no. Non mi sento rapito dalle emanazioni del lusso».
In un pianeta sovrappopolato dove lo spazio terrestre per singolo abitante viene sempre più ridotto e, nel peggiore dei casi circoscritto a pochi metri quadri di cemento; lei non crede come me che il vero lusso del futuro sarà quello di possedere “spazio” e “aria”? Non saranno l’aria pulita ed un verde spazio domestico il più grande lusso che si possa realmente desiderare?
«Senz’ombra di dubbio! Sono d’accordo con lei».
Okay, due argomenti importanti per concludere. Argomenti tanto delicati e importanti da non sentirmi di porle al riguardo alcuna domanda. Lascerò che sia lei, eventualmente, ad argomentare. “EUTANASIA” e “AFFIDAMENTO DI BAMBINI A COPPIE OMOSESSUALI”. Lasci che a parlare sia il suo cuore.
«Il diritto all’eutanasia… – le parole gli si spezzano in gola – L’eutanasia trovo che sia una scelta importante perché… Veder soffrire una persona pur di saperla in vita (“soffrendo però”), trovo che sia uno strazio incredibile per tutti. Per cui… Io sono a favore dell’eutanasia. Sono per la libera scelta personale di poter decidere di spegnere e chiudere dolcemente i propri occhi e, far vivere così una triste serenità ai propri cari piuttosto che, accanirsi a vivere in una condizione quasi… “ingiusta” direi, (è la prima parola che mi è venuta fuori) per il sofferente in primo luogo, e per la sua famiglia che lo assiste e che condivide con lui ogni momento di questo inferno. E credo che, anche nel caso in cui il povero paziente non sia più cosciente da tempo e le sue condizioni cliniche non promettenti, sia una scelta che spetti alla sua famiglia quella di… Deve poter essere un loro diritto».
Si riempie di pesante silenzio.
«E l’altra domanda qual era? – l’affidamento dei bambini… – Ah… – col capo abbassato mi fa segno di ricordare. Il tema è un’unghia che scarnifica la coscienza – l’amore è l’unica cosa veramente importante – insieme al cibo e all’istruzione – che un bambino debba ricevere per crescere sano e fiero. Tutto il resto è soltanto morale e sterile commento».
Spengo il registratore. Avrei continuato percorrendo temi realmente importanti come questo ma, l’orologio batte quasi l’ora di cena e certi quesiti fondamentali dell’esistenza vanno affrontati con cautela e senza porsi limiti di approfondimento. Mi alzo e ringrazio Francesco. Ci abbracciamo forte augurandoci entrambi un anno migliore del precedente. Ma, sia io che lui guardandoci poi sulla soglia della porta capiamo che quello che in realtà speriamo che avvenga è che: l’intera umanità possa respirare finalmente aria di pace e non più quella di zolfo! Speriamo che nessun megalomane a capo delle super potenze decida di festeggiare capodanno accendendo la miccia più grande per far un dispetto agli altri! E con questo desiderio di veder svettare nel cielo soltanto le colorate lanterne di carta io mi incammino sulla lunga Promenade di via Caracciolo con un po’ leggerezza nel cuore.
“Lo stile: un orientamento portatore di una verità che non assomiglia a niente; una ricerca soggettiva generatrice di disvelamenti quasi esoterici; una geometria dell’intelligenza, del sentimento applicati all’estetica; la naturalezza con cui lo spirito diviene visibile e reale: l’irruzione del sovrannaturale che conduce all’oblio di ciò che non è essenziale”.
Claudia Placanica
di Antonio Palmese
palmese.antonio@libero.it
Tratto da Informare n° 179 Marzo 2018