«La violenza non ha senso e l’odio non ha giustificazione. Sono scomoda a molti ma andrò avanti per la mia strada»
Considerate se questo è un gioco. Si muore per seguire e dare adito alla propria passione; si fomentano odio e violenza negli stadi; si inneggiano sventure per l’avversario che appare come il nemico in una guerra di trincea; si usa il “ferro” ed il coltello per fronteggiare un uomo comune perché professa una “fede” calcistica diversa dalla propria. No, questo non è il nostro calcio! Questo è il calcio degli ignobili, dei meschini, degli ignoranti, di chi rappresenta il volto putrefatto della società, la quale però sa dissociarsi con buon senso e aggregazione. E il racconto di Antonella Leardi parte da questi concetti, intrinseci a quelli di divertimento ed intrattenimento, perché lo sport si basa su valori che sono le fondamenta di uno strumento educativo straordinario.
Le hanno strappato l’anima e la vita dagli occhi, dalle mani, dal cuore. Le hanno ammazzato il figlio, e tutto questo per una partita di pallone. «Lotto affinché non ci sia un altro Ciro Esposito. Mio figlio è morto per l’odio. Sto mandando messaggi di pace che moltissimi hanno accolto, e questo ad alcuni non fa comodo». La grandezza disarmante di questa donna è frutto di una forza insolita che mai ha accennato al senso di vendetta. Ci racconta le sue emozioni Antonella, dopo averci calorosamente accolti in casa, in quel di Scampia.

Ciro, ferito prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina lo scorso 3 maggio dal romanista Daniele De Santis con un colpo di pistola a Tor di Quinto, è morto dopo 50 lunghi giorni di agonia tra sofferenze fisiche e psicologiche. «Hanno cercato di infangare l’immagine di mio figlio – spiega la Leardi – ma io ho sempre creduto nella sua bontà in quanto sapevo che fosse una persona umile, onesta, tranquilla, di cui tutti si innamoravano. La sua gioia – continua – era di seguire il Napoli e divertirsi allo stadio».
Quella sera, però, Ciro all’Olimpico non ci è mai salito. «Mio figlio ha avuto 3 arresti cardiaci, era morto ma nessuna forza dell’ordine mi ha avvisato. Mi avevano detto dei ragazzi che erano lì con lui che si era semplicemente fatto male alla mano, ma nulla di così tragico. Dio non ha voluto che morisse in quel momento. Ciro in ospedale mi diceva che lui era un leone, era Ercole ed era perfettamente cosciente, tanto che ci ha raccontato tutto quello che era successo. Purtroppo non l’ho potuto dire prima perché avevo paura che lo interrogassero e lo violentassero psicologicamente».
Le ansie di una mamma si trasformano in urla contro la violenza: «Nessuna dimenticanza nel nome di mio figlio. Chi strumentalizza il nome di Ciro non ha rispetto per lui. Ciro è morto per l’odio. Stop alla violenza!».
Antonella Leardi ha rappresentato, in quel momento, un linea sottile tra la pace e una possibile aspra guerriglia tra napoletani e romani. Bastava una parola, giustificabile, che incitasse alla vendetta per scatenare l’inferno. E invece, con parsimonia e con una lucidità disarmante, Antonella è riuscita a placare gli animi e incitare tutti a pensare il calcio come puro divertimento: «L’odio, il razzismo non hanno giustificazione. Che si vada a vedere una partita di pallone con un sentimento di gioia. La cosa che ha distrubato in molti è stato questo perbenismo che hanno ritrovato in me: questa voglia di non rivendicaizone, di non violenza. Non è piaciuto quello che ho fatto: avrebbe fatto più comodo avere una signora volgare e che cercasse vendetta. Il mio messaggio non si deve fermare solo a Napoli, a Roma, e in Italia. Voglio che le mie parole tocchino le corde del cuore di tantisse altre persone anche stranierie. Non si può dimenticare e rimaneri impassabili. Andrò avanti per la mia strada».
Non è facile ripercorrere quei momenti. Le lacrime di Antonella interrompono i ricordi di un figlio amorevole e passionale: «Il ricordo più bello è tutta una vita. Il ricordo più “brutto” è stato il primo anno di vita. Era irrequieto e non si calmava mai. Da un anno in su io non ho mai avuto ricordi brutti di mio figlio. Anche quando interruppe gli studi non mi ha creato un problema perché la sua intenzione era lavorare e aiutare il papà all’autolavaggio. È stato sempre, anche da ragazzino, una persona matura. Era un ragazzo che se c’era bisogno di combattere per il quartiere non si sottraeva. Mi manca tutto, da quando è nato fino ad ora». E che ne sanno i maldicenti delle lacrime di questa madre, della sua disperazione, delle cene in casa senza entusiasmo, di una vita straziata da un dolore che mai andrà via.

In occasione di Napoli-Roma dello scorso 1 novembre, i napoletani hanno inneggiato ancora alla violenza contro la compagine romana. La risposta non s’è fatta aspettare. Ma, dopo un lavoro di grande divulgazione alla non violenza, come si sarà sentita Antonella leggendo quello striscione (“Se occasione ci sarà non avremo pietà” ndr)? «Se avessi avuto la podestà di entrare nei cuori di tutti, non sarei una donna ma sarei Dio. Non ci riesce nemmeno Dio, come potrei farcela io? Se avessi saputo fare miracoli io avrei salvato mio figlio e tutto ciò non sarebbe successo. Il mio messaggio è arrivato a moltissimi, altrimenti la partita e il prosieguo della vicenda, avrebbe preso una svolta diversa. Non dimentichiamoci però che sotto quello striscione c’era il nostro, in memoria di Ciro».
E allora anche noi ci uniamo al grido di Antonella: «Basta con la violenza. Non ha senso. Se lo Stato volesse, potrebbe intervenire in poco tempo. Inoltre, mi aspetto una non così scontata giustizia perché i tribunali, ultimamente, ci hanno riservato brutte sorprese quando nei processi c’era di mezzo lo Stato. E la morte di mio figlio è anche colpa dello Stato perché quella sera a Tor di Quinto non c’erano forze dell’ordine che tutelassero il cammino dei napoletani verso lo stadio. Pretendo sia fatta giustizia».
Considerate se questo è un gioco. Omicidi,tribunali, e ricerca della giustizia. No, il nostro calcio è costellato da grandi emozioni, sane rivalità che alimentano l’agonismo, da stadi pieni di bambini, famiglie e persone coscienti che soffrono e gioiscono per la propria squadra, che insieme vivono la passione di un gioco che rappresenta, soprattutto a Napoli, emancipazione sociale. Ricordiamo per non dimenticare. Urliamo ancora contro la violenza.
In memoria di Ciro… Mai più.
Tratto da Informare n° 140 Dicembre 2014
